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domenica 26 aprile 2015

Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi

Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi
Scontri, morti e arresti a Bujumbura all’indomani dell’annuncio della candidatura del presidente uscente, Pierre Nkurunziza. Le radio private burundesi, partner di VITA, non trasmettono più all’interno del paese. La sede della radio RPA, accusata di “alimentare il movimento insurrezionale dei manifestanti”, occupata da polizia e membri del governo. Ma non chiuderà. Timide reazioni della Comunità internazionale.

L’ombra della guerra civile e del caos sta nuovamente aleggiando sul Burundi. Stamane centinaia di giovani sono scese nelle strade di Bujumbura per protestare contro la candidatura del Presidente uscente, Pierre Nkurunziza, alle prossime elezioni presidenziali previste in giugno. Subito dopo l’annuncio della
candidatura, l’opposizione e la società civile avevano indetto una grande manifestazione per contestare la volontà del presidente burundese di correre per un terzo mandato, violando così l’Accordo di pace di Arusha firmato nel 2000 e che limita la funzione presidenziale a due mandati.
Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi



Secondi fonti locali raccolte dal sito d’informazione burundese IWACU, gli scontri che hanno opposto i manifestanti e le forze dell’ordine in vari quartieri della capitale avrebbero fatto sino ad ora tre morti tra i civili (a Ngagara, Cibitoke e Musaga), tutti colpiti dagli spari della polizia.



Secondo il vice-portavoce della Polizia, Pierre Nkurikiye, le forze dell’ordine sono ancora impiegate nei quartieri Nord della capitale, dove gli scontri sono stati tra i più intensi. Secondo la difficile ricostruzione fatta da IWACU nella sua diretta, i primi manifestanti si sarebbero radunati nei pressi del centro per marciare verso il cuore della capitale, ma sono stati subito dispersi dalle bombe lacrimogeni lanciate dalle forze dell’ordine. Le stesse scene si sono poi ripetute a Musaga, dove la polizia è stata accerchiata da giovani contrari ai tentativi di arresto di manifestanti. Nella difficile ricostruzione dei fatti effettuata da IWACU, atti di violenza, o comunque momenti di tensione, si sarebbero verificati nei quartieri di Buyezi, Cibitoke (un morto e quattro feriti), Buterere, Bwiza, Nyakabiga e Mutakura. Le tensioni hanno anche lasciato a spazio a scene sorprendenti come “gli abbracci calorosi tra alcuni poliziotti e manifestanti a Mutakura” oppure “gli applausi rivolti dai contestatori ai militari” (del campo di Muha), che sino ad ora non sono intervenuti nella capitale.
Una serie di fonti concordanti fra loro assicurano che le forze dell’ordine sarebbero invece infiltrate dai membri della temutissima milizia pro-governativa, Imbonerakure (che in kirundi significa “coloro che vedono lontano”). “Abbiamo chiesto di manifestare pacificamente e così è stato, ma la polizia e le milizie del partito al potere hanno aperto il fuoco sui manifestanti”, accusa Frodebu Leonce Ngendakumana, uno dei dirigenti dell’opposizione. Un’accusa subito contestata dal ministro dell’Interno, Edouard Nduwimana, che denuncia “l’appello alla rivolta di alcuni uomini politici e responsabili della società civile”.
Nel pomeriggio, la calma sarebbe tornata a Bujumbura, ma c’è da chiedersi quanto durerà. Probabilmente poco, visto che Vital Nshimirimana, il rappresentante legale del Forum delle organizzazioni della società civile (FORSC) e capofila del movimento “Stop al 3° mandato”, ha indetto una nuova manifestazione per domani mattina.
Intanto, dall’estero giungono notizie poco rassicuranti. Secondo IWACU, il governo burundese avrebbe fatto pervenire alle Missioni internazionali della Repubblica centrafricana (MISCA) e della Somalia (AMISON) una nota in cui chiedono il ritorno dei contingenti burundesi nel paese entro le prossime 72 ore. Contattato da IWACU, il portavoce dell’esercito burundese, il colonnello Gaspard Baratuza, afferma che non c’è stata nessuna informazione ufficiale riguardo un eventuale ritiro di questi contingenti dalla RCA e Somalia.
Una comunità internazionale poco reattiva
Finora l’ondata di repressione che si è abbattuta a Bujumbura non ha destato molte reazioni tra gli attori della Comunità internazionale. Tra Siria, Iraq, Libia o Nepal, gli spazi e il tempo concessi al Burundi sono pochi. Almeno per il momento. Gli Stati Uniti sono stati i primi a reagire esprimendo il proprio “rammarico rispetto alla decisione del partito governativo del Burundi di ignorare le disposizioni dell’Accordo di Arusha nominando il Presidente Pierre Nkurunziza come suo candidato per un terzo mandato presidenziale. Con questa decisione, il Burundi sta perdendo un'occasione storica per rafforzare la sua democrazia”.
Tra le poche personalità che si sono espresse ieri in Europa, c’è Cécile Kyenge, che in un’intervista rilasciata a Infos Grands Lacs (media partner di VITA), ha condannato la scelta fatta da Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato. “Dalla Chiesa cattolica all’opposizione, passando per la società civile e l’insieme della Comunità internazionale, ivi compreso i paesi della sotto-regione, tutti avevano definito questa candidatura una scelta sbagliata”. Candidandosi, il presidente uscente “mette in pericolo il consenso di Arusha che garantisce la pace” in Burundi.
Oggi su Twitter, la Presidente della Commissione dell’Unione Africa, Nkosazana Dlamini Zuma, ha chiesto “a tutti gli attori” burundesi “di rispettare l’accordo di Arusha, la Costituzione e la legge elettorale”. Zuma ha anche esortato (quando la repressione era già in atto) “le autorità burundesi di far prova del massimo ritegno e di proteggere la popolazione in seguito all’annuncio della candidatura” di Nkurunziza “per un terzo mandato”.
Le radio private ridotte al silenzio
Parallelamente, il regime al potere ha deciso di ridurre al silenzio le principali radio private del paese, tra cui Radio Publique Africaine, l’emittente radiofonica più seguita del paese. Secondo IWACU, alle 10h30 le trasmissioni di RPA, Radio Bonesha e Radio Isanganiro sono state interrotte all’interno del paese “per motivi di sicurezza”, ma i programmi rimangono accessibili sui loro siti. Alle 11h15, la polizia ha iniziato ad accerchiata la sede di RPA, raggiunta sui luoghi da tre ministri del governo - quelli dell’Interno (Nduwimana), della Comunicazione (Tharcisse Kkezabahizi) e della Sicurezza pubblica (Gabriel Nizigama) - con l’intenzione di chiudere la radio. Una volontà confermata dal Presidente dell’Osservatorio dell stampa burundese, Innocent Muhozi. E’ iniziato allora un lungo negoziato tra i ministri e il direttore della radio, Bob Rugurika, con la presenza dell’ex Presidente burundese, Domitien Ndayizeye, e sotto lo sguardo curioso di giornalisti burundesi e stranieri, nonché una folla di simpatizzanti di RPA rimasti fuori dalla sede.



“Non siamo venuti qui per chiudere la radio, ma per discutere”, ha dichiarato Nduwimana. Una dichiarazione accolta positivamente dal direttore dei programmi di RPA, Gilbert Niyonkuru, che ha salutato “il ministro dell’Interno per aver scelto di dialogare con la direzione della nostra radio, sospendendo de facto gli effetti del mandato del procuratore della Repubblica”, Arcade Nimubona, che accusa RPA di spingere i manifestanti alla rivolta. La RPA era stata inoltre accusata di seguire in diretta le manifestazioni, gettando benzina sul fuoco e spingendo i burundesi a fuggire dal paese. Al termine delle discussioni, la RPA ha accettato di sospendere la copertura degli eventi in diretta, denunciando il fatto di essere l’unica stazione radiofonica minacciata di chiusura.
Oltre ad essere la radio più ascoltata del Burundi, RPA (e il suo direttore Rugurika) sono molto temuti dal regime per le numerose inchieste realizzate in passate per denunciare i casi di corruzione e di bad governance che si sono verificati nell’entourage del Presidente Nkurinziza. Grande scalpore aveva fatto l’arresto di Rugurika con l’accusa di “concorso in omicidio” dopo aver diffuso sulla sua radio un’inchiesta sul massacro di tre suore italiane nel settembre 2014 in cui una fonte anonima denunciava il coinvolgimento dei servizi segreti burundesi.
RPA e Radio Isanganiro fanno parte di un’agenzia massmediatica (Agence Infos Grands Lacs) creata dall’ong Panos Grands Lacs (IPGL), con cui VITA ha firmato poche settimane fa una partnership triennale per la produzione di contenuti al servizio dei media dell’agenzia presenti in Repubblica democratica del Congo, Burundi e Rwanda.




VIDEO: Cipro, ballottaggio per le presidenziali nel nord turco






La questione cipriota: quali scenari dopo l’elezione di Eroglu?

La vittoria elettorale dello scorso aprile ottenuta da Dervis Eroglu, nelle presidenziali svoltesi nella Repubblica turca di Cipro del Nord, fa affiorare numerose incognite in merito a quello che sarà il corso dei negoziati avviati, sotto l’egida delle Nazioni Unite, nel settembre 2008 tra le parti greco e turco cipriote.
Come noto, la linea politica di Eroglu è contraria all’unificazione dell’isola, protendendo più per un accordo fra due “Stati indipendenti”. Una posizione che risulta distante dai criteri negoziali portati avanti sino ad oggi e sostenuti dal presidente uscente Mehmet Ali Talat, il quale aveva sempre espresso, durante il suo mandato, la volontà di far coesistere due regioni e due popoli in un’unica federazione.
Già a seguito della sua vittoria elettorale, Eroglu, pur non essendo intenzionato a rompere i negoziati, aveva dichiarato di voler “rivedere ad uno ad uno” i temi già affrontati da Talat e dal suo omologo greco-cipriota Dimitris Christofias e di voler lottare per il riconoscimento dei diritti della popolazione turco-cipriota, per il quale occorrerà un dialogo con la madrepatria Turchia.







Appare naturalmente chiaro come l’annosa questione cipriota si inquadri nel più ampio contesto legato al processo di adesione di Ankara all’Unione Europea: in tale ottica il governo turco, che tra l’altro era stato criticato dalla stampa del Paese per non aver appoggiato in modo più esplicito la candidatura di Talat, ha a più riprese ribadito negli ultimi mesi il proprio ruolo di “garante” della Repubblica turca di Cipro del Nord (ad oggi ancora non riconosciuta dalle Nazioni Unite), pur affermando, con il suo premier Recep Tayyip Erdogan, la necessità di proseguire il processo negoziale avviato. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, subito dopo il voto, è volato di sorpresa a Bruxelles per incontrare il commissario europeo responsabile per l’allargamentoStefan Füle e fornirgli rassicurazioni sulla fedeltà di Eroglu ai negoziati.
La stampa turca ha naturalmente seguito da vicino le elezioni nella Repubblica di Cipro del Nord; negli ultimi mesi analisti e politologi hanno fornito una serie di possibili spiegazioni sui motivi del cambio di rotta delle preferenze dei turco-ciprioti verso una figura che segna il ritorno alla politica della “vecchia guardia”, ma soprattutto sulle evenutali conseguenze di tale scelta per il futuro dell’isola nonchè per il percorso europeo della Turchia. Secondo le tesi prevalenti Eroglu ha ottenuto la maggioranza grazie ai voti dei ciprioti emigrati dalla Turchia, mentre gli “autoctoni” avrebbero scelto Talat. Avrebbero inoltre pesato sul voto, oltre allo scontento nei confronti della politica interna di Talat, l’immagine non proprio credibile dell’UE percepita dai turco-ciprioti, nonché l’amarezza per non aver visto mantenere nessuna delle promesse fatte dalpiano Annan.(1)
La questione cipriota: breve excursus storico
Al fine di delineare i possibili scenari futuri che si aprono per l’isola di Cipro a seguito delle recenti elezioni crediamo valga la pena spendere alcune parole per descrivere rapidamente le principali fasi storiche che hanno portato all’attuale situazione.
Colonia britannica dal 1925, Cipro ben presto si rifiutò di essere una pedina nelle mani degli imperialisti, al punto che già alla fine degli anni Quaranta iniziarono le agitazioni per l’autodeterminazione. Furono proprio tali fermenti a gettare le basi per l’odierno conflitto fra la Grecia e la Turchia: mentre infatti i greco-ciprioti auspicavano un’unione con la Grecia (aderendo al movimento noto come enosis, termine greco che significa “unione”), la popolazione turca non ne era affatto entusiasta. Nel 1950 la Chiesa ortodossa cipriota e il 96% dei greco-ciprioti si espressero a favore dell’enosis. In risposta gli inglesi redassero una nuova costituzione, che fu accolta dalla popolazione turca ma respinta dall’Organizzazione nazionale dei combattenti per la libertà di Cipro.
Nell’agosto del 1960 la Gran Bretagna concesse a Cipro l’indipendenza. Un greco, l’arcivescovo Makarios, assunse la carica di presidente, mentre il turco Kükük divenne vicepresidente. Nel 1964, alla luce dell’aggravarsi delle violenze tra i due gruppi etnici, le Nazioni Unite inviarono sull’isola le loro forze di pace. Nel 1967 una giunta militare si sostituì al governo greco e l’enosis venne abbandonata. La Grecia tuttavia non si arrese e nel 1974, con un colpo di stato organizzato anche con l’aiuto della CIA, depose Makarios rimpiazzandolo con un presidente fantoccio. La Turchia rispose con l’invasione di circa un terzo dell’isola, che costrinse quasi duecentomila greco-ciprioti ad abbandonare le loro abitazioni.
Nel 1983 i turco-ciprioti proclamarono uno Stato separato denominandolo Repubblica turca di Cipro del Nord (a tutt’oggi riconosciuto come Stato sovrano solo dalla Turchia); tale iniziativa, tuttavia, non interruppe i negoziati che portarono ad un summit tenutosi a New York nel gennaio del 1985, in occasione del quale un accordo preliminare promosso dalle Nazioni Unite fu accettato dalla comunità turco-cipriota, ma rifiutato all’ultimo momento dal presidente Kyprianou. Nei quindici anni successivi i negoziati furono rilanciati a più riprese, ma sempre senza giungere ad alcun esito. La situazione addirittura sembrò crollare nel 1998, allorchè il governo di Nicosia acquistò missili antiaerei dalla Russia, con l’intenzione di installarli sull’isola. Di fronte alla minaccia di ritorsioni da parte della Turchia, Nicosia raggiunse un accordo con la Grecia per l’installazione dei missili nell’isola di Creta, sotto controllo cipriota.
Nel corso del 2002 ripresero i colloqui tra le due comunità, resi più urgenti dalla volontà di Cipro e della Turchia di entrare nell’Unione Europea (Cipro aderì ufficialmente all’UE il 1° maggio 2004); tuttavia, nonostante le pressioni internazionali per la formazione di uno Stato federale con presidenza alternata, secondo quanto proposto dall’ONU, e i primi passi compiuti con l’apertura della frontiera greco-turca di Nicosia, risalente al marzo 2003, il cammino verso l’accettazione di un piano di pace non riuscì a compiersi, anche alla luce dei risultati del referendum del 2004, con il quale, mentre la maggioranza dei turco-ciprioti si dichiarò favorevole al piano di riunificazione, la maggioranza dei greco-ciprioti si disse contraria. Anche il Piano Annan, promosso nello stesso anno, non ha portato ad alcun miglioramento: esso ha preso il nome dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e ha previsto la creazione di una “Repubblica Unita di Cipro”, con bandiera nazionale ed inno unificati. La nuova entità politica avrebbe avuto un presidente greco-cipriota, al quale si sarebbe dovuto affiancare un vice-presidente turco-cipriota, e sarebbe stata retta da un governo federale composto da due Stati costituenti, con un senato federale formato da ventiquattro turco-ciprioti e ventiquattro greco-ciprioti.
La questione cipriota: gli scenari futuri
Cerchiamo ora di esaminare i possibili scenari che si profilano per il futuro dell’isola con la presidenza Eroglu. Un primo scenario prevederebbe il fallimento dei negoziati e l’inizio del processo di separazione tra le due parti di Cipro. Secondo Cengiz Aktar, analista esperto di Unione Europea ed editorialista del quotidiano Vatan, tale scenario porterebbe alla trasformazione della Repubblica turca di Cipro del Nord nell’ottantaduesima provincia turca, ad un blocco dei negoziati tra UE e Turchia e allo stabilimento definitivo delle forze armate turche sull’isola, con conseguenze inevitabili sulla politica interna della stessa Turchia.
Un secondo scenario, invece, si aprirebbe nel caso la Turchia decidesse di avviare concessioni unilaterali per favorire la risoluzione della questione cipriota e la rapida prosecuzione dei propri negoziati di adesione all’Unione Europea: in quest’ottica  il governo turco potrebbe da un lato imporre la propria volontà a Eroglu mentre, dall’altro, potrebbe concedere unilateralmente l’apertura dei porti marittimi e aerei per agevolare le trattative con l’Europa.
Un terzo scenario, infine, prevederebbe un ampliamento dei negoziati per la risoluzione del problema cipriota, i quali verrebbero a coinvolgere non solo le parti cipriote greca e turca, ma anche la Turchia, la Grecia, l’Unione Europea, il segretariato e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: come sostiene lo stesso Aktar, per “trovare una soluzione per Cipro non ha più senso limitare le trattative ai due presidenti”.
Secondo invece Semih Idiz, analista politico di Milliyet, il sostegno turco al percorso negoziale avviato da Talat, la forte dipendenza economica di Cipro nord dalla Turchia e l’indebolimento del fronte nazionalista turco costituiscono “punti a sfavore” che renderanno la vita molto difficile ad Eroglu. Nel suo editoriale dello scorso 19 Aprile Idiz sostiene inoltre come ormai la Turchia non sia più quella di 10 anni fa, in quanto può contare su un’autorità internazionale maggiore, che le è derivata anche dalla posizione seria e coerente che ha assunto a favore della risoluzione della questione cipriota. Ciò comporterà inevitabilmente una maggiore influenza delle sue decisioni sul destino di Cipro, cui Eroglu non potrà sottrarsi.