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lunedì 2 novembre 2015

VIDEO: Turchia: vittoria record per il "Sultano" che ottiene la maggioranza assoluta











- Ankara, 2 nov. - All'indomani del voto che ha riconsegnato al suo Akp la maggioranza assoluta, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha lanciato un messaggio "al mondo intero" chiedendo che "il risultato della volonta' popolare venga rispettato". Il filo-islamico partito della Giustizia e dello sviluppo, con il 49,41% delle preferenze, ha conquistato 316 dei 550 seggi del Parlamento turco, un numero ben piu' alto della maggioranza assoluta (276), che consente al partito del presidente di formare da solo il governo e di sfiorare la maggioranza qualificata (330) necessaria per cambiare la costituzione in direzione presidenzialista.

  Erdogan ha parlato alla fine della preghiera cui ha preso parte in una moschea di Istanbul, ribadendo un concetto espresso nei giorni passati, ovvero che i turchi hanno scelto la stabilita', persa dal Paese in seguito al risultato delle elezioni del 7 giugno e al fallimento dei tentativi di formare una coalizione.
  Il presidente ha poi liquidato le polemiche e i dubbi nei suoi confronti sollevati dalla stampa straniera nei giorni passati: "Non mi hanno mai rispettato, sin dal giorno in cui sono diventato presidente con il 52% dei voti. Qualcuno dovrebbe chiedere a questi signori 'Che concetto avete di democrazia?'". Erdogan ha ringraziato i turchi per la fiducia espresso nei confronti del suo partito, "che governera' da solo, come ci ha chiesto la gente e il volere del popolo deve essere rispettato, da tutto il mondo". L'Akp ha dimostrato, secondo Erdogan, di essere piu' forte dei complotti orditi alle sue spalle e governera' secondo il motto "una nazione, una bandiera, una terra, uno stato".
  I repubblicani del Chp, con il 25,38% hanno avuto un lievissimo incremento di voti rispetto alle elezioni di giugno e 134 seggi, 3 in piu' rispetto a 5 mesi fa, confermandosi principale partito di opposizione, e primo partito in appena 6 delle 81 provincie della Turchia, tutte situate sulla costa del Mar Egeo. Il segretario Kelam Kilcdaroglu ha dichiarato che "i 400 morti degli ultimi mesi meritano una valutazione molto attenta", rinviando al congresso l'eventualita' di rassegnare le dimissioni e ribadendo che il Chp "continuera' ad agire per portare la democrazia in questo Paese".
  Amaro risveglio per i nazionalisti del Mhp, che dal 16,2% di giugno sono calati all'11,9%, vedendo dimezzati il numero dei seggi loro riservati nell'unica Camera del Parlamento, da 80 a 41. Il segretario Devlet Bahceli ha rassegnato le dimissioni affermando che "il partito ha superato la soglia di sbarramento aggirando tantissime trappole". Del calo dell'Mhp ne ha beneficiato l'Akp, che ha sottratti voti ai nazionalisti con il pugno duro mostrato nei confronti dei ribelli separatisti curdi del Pkk negli ultimi 3 mesi.
  I filo curdi dell'Hdp, che a giugno avevano passato per la prima volta la soglia di sbarramento del 10%, ottenendo il 13% dei voti, sono passati al 10,7, passando da 80 a 59 parlamentari. Nei proclami della vigilia il segretario Selattin Demirtas puntava al 15% e a portare l'Hdp a essere terzo partito. "Non abbiamo ottenuto quello che volevamo, ma ringraziamo chi ci ha dato fiducia, siamo in Parlamento e continueremo a lavorare per la democrazia, ma soprattutto per la Pace, ce lo chiede la gente". La maggioranza ottenuta in buona parte del sud-est del Paese, a maggioranza curda, consente comunque all'Hdp di guadagnare piu' seggi dei nazionalisti e diventare la terza forza presente in Parlamento.
  Intanto, in seguito al risultato elettorale, la Borsa di Istanbul ha guadagnato 5 punti alla riapertura dei mercati questa mattina.



 

lunedì 26 ottobre 2015

VIDEO: Polonia: trionfa la destra di Ewa Kopacz






- Varsavia, 26 ott. - Le elezioni politiche in Polonia sono state vinte nettamente dall'opposizione conservatrice ed euroscettica del partito Diritto e Giustizia (PiS) che potra' governare da sola. In base agli exit poll, ha conquistato il 39,1% contro il 23% dei liberali di Piattaforma Civica che con la premier uscente, Ewa Kopacz, hanno subito ammesso la sconfitta. In una tornata che ha visto l'affluenza al 51,6%, il partito di destra di Jaroslaw Kaczysnski, gemello dell'ex presidente Lech morto nel 2010, ha ottenuto 242 seggi su 460 nella Camera bassa, contro i 133 andati a Piattaforma Civica.
  Dopo otto anni in cui l'economia nazionale e' cresciuta quasi del 50%, quindi, perdono la guida del governo i liberali di Donald Tusk, nel frattempo trasferitosi a Bruxelles come presidente del Consiglio Ue. A guidare il prossimo esecutivo sara' la 52enne antropologa Beata Szydlo, la candidata conservatrice di PiS, che difende l'importanza dei valori cattolici e patriottici, guarda alla Nato in chiave anti-russa e propone una redistribuzione della ricchezza a beneficio delle classi lavoratrici.
Ora il PiS potrebbe avviare una fase di confronto critico con l'Ue, migranti, su cui Diritto e Giustizia si oppone alla redistribuzione obbligatoria da altri Paesi sostenendo che potrebbero compromettere la tradizione cattolica del Paese e addirittura portare parassiti e malattie.
  Si allontana anche la prospettiva di un ingresso nell'euro. Gli altri due partiti che entrano nel Sejm, la Camera bassa polacca, sono Nowoczesn.pl (Moderna) del liberale Ryszard Petru con il 7,1% e il Partito dei contadini (Psl) con il 5,2%. Non hanno superato la soglia di sbarramento dell'8%, il partito Sinistra unita (Zl) che ha avuto il 6,6%, la formazione di Janusz Korwin-Mikke con il 4,9%, e quella di sinistra sociale Razem (Insieme) di Adrian Zandbergcon il 3,9%.







MIGRANTI: UE, ACCORDO SULLA ROTTA BALCANICA - 
Per far fronte all'emergenza migranti sulla rotta dei Balcani saranno accolte 100.000 persone nei centri di accoglienza di cui la meta' in Grecia. Lo ha annunciato il presidente Jean-Claude Juncker al temrine del mini-summit sull'emergenza migranti cui hanno partecipato i membri Ue, Austria, Bulgaria, Croazia, Germania, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Romania, Slovenia e Ungheria, piu' Albania, Macedonia e Serbia, convocata per una maggiore cooperazione e nuove iniziative per gestire i flussi. Juncker ha dichiarato che e' stato accettato un piano in 17 punti che prevede tra l'altro di "aumentare la capacita' di fornire rifugio temporaneo, cibo, acqua e assistenza sanitaria, a quanti ne abbiano bisogno attivando, quando necessario, il meccanismo di Protezione Civile Ue; la Grecia aumentera' la sua capacita' di accoglienza per 30.000 nuovi posti entro la fine dell'anno e con il sostegno dell'Unhcr (l'agenzia Onu per i profughi, ndr) fornira' sussidi e programmi di ospitalita' familiare ad altri 20.000... sono previsti aiuti economici sia alla Grecia che all'Unhcr; collaborazione con l'Unhcr che aumentera' le sue capacita' di accoglienza per ulteriori 50.000 posti sulla la lortta dei Balncani occidentali".
Il piano Juncker, che ha come chiave quello di coordinare ed "affrontare insieme, con un approccio trasnfrontaliero basato sulla collaborazione" ed "incentrato sul rapido scambio di informazioni" lo tsunami migranti, prevede, tra l'altro, di "assicurare l'immediata registrazione (dei migranti) all'arrivo ricorrendo a sistemi biometrici; scoraggiare il movimento dei profughi o migranti da un confine all'altro senza informare i Paesi vicini; scambio di informazioni sulla dimensione dei flussi; collaborare con Frontex per reimpatriare i migranti che non hanno biosgno di protezione internazionale, in particolare intensificando la collaborazione con Afghanistan, Bangladesh e Pakistan; rafforzare il sostegno ai blocchi di frontiera attuati da Frontyez ai confini tra Bulgaria e Turchia; istituire una nuova operazione di controllo Frontex al confine esterno tra Grecia e Macedonia e Grecia ed Albania.



venerdì 8 maggio 2015

VIDEO: Il Regno Unito verso un nuovo governo Tory: disfatta per Labour e LibDem





Elezioni in Regno Unito, è testa a testa fra Tory e Labour



LONDRA - Seggi aperti in Gran Bretagna per le elezioni più incerte da anni. Alle urne sono chiamati circa 45 milioni di cittadini per rinnovare i 650 seggi della Camera dei Comuni in altrettanti collegi uninominali (59 in Scozia). Si vota fino alle 22 locali. La maggioranza assoluta per governare è 326 seggi, ma i sondaggi non l'accreditano ad alcun singolo partito. Previsto un testa a testa fra i conservatori di David Cameron e i laburisti di Ed Miliband, con varie altre forze in lizza per guadagnare seggi: in primis, gli scozzesi dello Snp.
Anche il sondaggio di YouGov, l'unico che nei giorni scorsi avesse assegnato un vantaggio ai Conservatori, indica ora parità assoluta fra i Tory e il Labour, il 33% ciascuno, riporta il Sun. Seguono gli anti-Ue dell'Ukip al 12% e i LibDem al 10. Stando al Guardian, parte dell'elettorato Tory potrebbe spostarsi sui LibDem pur di salvare la possibilità della sola coalizione plausibile per tenere Cameron a Downing street.
Sturgeon già pronta a trattative con Labour - Nicola Sturgeon si prepara ad avviare trattative coi laburisti per formare un governo dopo le elezioni anche se il loro leader Ed Miliband ha espresso un secco 'no'. E' quanto si legge sull'Independent, secondo cui la leader dei nazionalisti scozzesi ha pre-allertato collaboratori e deputati del suo Scottish National Party (Snp) che abbiano esperienza a Westminster: diventerebbero cruciali nel trattare un accordo col Labour. Mentre secondo il Times, anche sul fronte laburista ci si starebbe muovendo in questo senso, per rendere possibile quell'alleanza che secondo gli avversari conservatori finirebbe per minare le stesse fondamenta unitarie della Gran Bretagna. Un ruolo determinante nello spingere Miliband fra le 'braccia' della Sturgeon lo avrebbe il sindacato Unite, il maggiore finanziatore del Labour. Il segretatio generale Len McCluskey ha affermato che metà degli iscritti in Scozia sono sostenitori dell'Snp - su posizioni di sinistra vicine al Labour - e che Miliband deve ''collaborare con ogni partito progressista che vuole cambiare il Paese''.



Secondo gli ultimi sondaggi, infatti, tra Tories e Labour ci sarebbe un vero e proprio testa a testa, con entrambi i partiti dati poco sopra il 30% dei voti totali. Tuttavia, nessuno dei due partiti otterrebbe la maggioranza assoluta dei seggi. Secondo le ultime stime, il partito del presidente uscente Cameron potrebbe ottenere tra i 270 ed i 289 seggi, una manciata in più dei Labour ma, soprattutto, molti meno rispetto ai 326 necessari per formare un governo di maggioranza monocolore. Ecco perché il previsto exploit elettorale del SNP – stimato in almeno 50 seggi – potrebbe essere decisivo.



domenica 26 aprile 2015

Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi

Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi
Scontri, morti e arresti a Bujumbura all’indomani dell’annuncio della candidatura del presidente uscente, Pierre Nkurunziza. Le radio private burundesi, partner di VITA, non trasmettono più all’interno del paese. La sede della radio RPA, accusata di “alimentare il movimento insurrezionale dei manifestanti”, occupata da polizia e membri del governo. Ma non chiuderà. Timide reazioni della Comunità internazionale.

L’ombra della guerra civile e del caos sta nuovamente aleggiando sul Burundi. Stamane centinaia di giovani sono scese nelle strade di Bujumbura per protestare contro la candidatura del Presidente uscente, Pierre Nkurunziza, alle prossime elezioni presidenziali previste in giugno. Subito dopo l’annuncio della
candidatura, l’opposizione e la società civile avevano indetto una grande manifestazione per contestare la volontà del presidente burundese di correre per un terzo mandato, violando così l’Accordo di pace di Arusha firmato nel 2000 e che limita la funzione presidenziale a due mandati.
Elezioni presidenziali in Burundi, sull' orlo di una crisi di nervi



Secondi fonti locali raccolte dal sito d’informazione burundese IWACU, gli scontri che hanno opposto i manifestanti e le forze dell’ordine in vari quartieri della capitale avrebbero fatto sino ad ora tre morti tra i civili (a Ngagara, Cibitoke e Musaga), tutti colpiti dagli spari della polizia.



Secondo il vice-portavoce della Polizia, Pierre Nkurikiye, le forze dell’ordine sono ancora impiegate nei quartieri Nord della capitale, dove gli scontri sono stati tra i più intensi. Secondo la difficile ricostruzione fatta da IWACU nella sua diretta, i primi manifestanti si sarebbero radunati nei pressi del centro per marciare verso il cuore della capitale, ma sono stati subito dispersi dalle bombe lacrimogeni lanciate dalle forze dell’ordine. Le stesse scene si sono poi ripetute a Musaga, dove la polizia è stata accerchiata da giovani contrari ai tentativi di arresto di manifestanti. Nella difficile ricostruzione dei fatti effettuata da IWACU, atti di violenza, o comunque momenti di tensione, si sarebbero verificati nei quartieri di Buyezi, Cibitoke (un morto e quattro feriti), Buterere, Bwiza, Nyakabiga e Mutakura. Le tensioni hanno anche lasciato a spazio a scene sorprendenti come “gli abbracci calorosi tra alcuni poliziotti e manifestanti a Mutakura” oppure “gli applausi rivolti dai contestatori ai militari” (del campo di Muha), che sino ad ora non sono intervenuti nella capitale.
Una serie di fonti concordanti fra loro assicurano che le forze dell’ordine sarebbero invece infiltrate dai membri della temutissima milizia pro-governativa, Imbonerakure (che in kirundi significa “coloro che vedono lontano”). “Abbiamo chiesto di manifestare pacificamente e così è stato, ma la polizia e le milizie del partito al potere hanno aperto il fuoco sui manifestanti”, accusa Frodebu Leonce Ngendakumana, uno dei dirigenti dell’opposizione. Un’accusa subito contestata dal ministro dell’Interno, Edouard Nduwimana, che denuncia “l’appello alla rivolta di alcuni uomini politici e responsabili della società civile”.
Nel pomeriggio, la calma sarebbe tornata a Bujumbura, ma c’è da chiedersi quanto durerà. Probabilmente poco, visto che Vital Nshimirimana, il rappresentante legale del Forum delle organizzazioni della società civile (FORSC) e capofila del movimento “Stop al 3° mandato”, ha indetto una nuova manifestazione per domani mattina.
Intanto, dall’estero giungono notizie poco rassicuranti. Secondo IWACU, il governo burundese avrebbe fatto pervenire alle Missioni internazionali della Repubblica centrafricana (MISCA) e della Somalia (AMISON) una nota in cui chiedono il ritorno dei contingenti burundesi nel paese entro le prossime 72 ore. Contattato da IWACU, il portavoce dell’esercito burundese, il colonnello Gaspard Baratuza, afferma che non c’è stata nessuna informazione ufficiale riguardo un eventuale ritiro di questi contingenti dalla RCA e Somalia.
Una comunità internazionale poco reattiva
Finora l’ondata di repressione che si è abbattuta a Bujumbura non ha destato molte reazioni tra gli attori della Comunità internazionale. Tra Siria, Iraq, Libia o Nepal, gli spazi e il tempo concessi al Burundi sono pochi. Almeno per il momento. Gli Stati Uniti sono stati i primi a reagire esprimendo il proprio “rammarico rispetto alla decisione del partito governativo del Burundi di ignorare le disposizioni dell’Accordo di Arusha nominando il Presidente Pierre Nkurunziza come suo candidato per un terzo mandato presidenziale. Con questa decisione, il Burundi sta perdendo un'occasione storica per rafforzare la sua democrazia”.
Tra le poche personalità che si sono espresse ieri in Europa, c’è Cécile Kyenge, che in un’intervista rilasciata a Infos Grands Lacs (media partner di VITA), ha condannato la scelta fatta da Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato. “Dalla Chiesa cattolica all’opposizione, passando per la società civile e l’insieme della Comunità internazionale, ivi compreso i paesi della sotto-regione, tutti avevano definito questa candidatura una scelta sbagliata”. Candidandosi, il presidente uscente “mette in pericolo il consenso di Arusha che garantisce la pace” in Burundi.
Oggi su Twitter, la Presidente della Commissione dell’Unione Africa, Nkosazana Dlamini Zuma, ha chiesto “a tutti gli attori” burundesi “di rispettare l’accordo di Arusha, la Costituzione e la legge elettorale”. Zuma ha anche esortato (quando la repressione era già in atto) “le autorità burundesi di far prova del massimo ritegno e di proteggere la popolazione in seguito all’annuncio della candidatura” di Nkurunziza “per un terzo mandato”.
Le radio private ridotte al silenzio
Parallelamente, il regime al potere ha deciso di ridurre al silenzio le principali radio private del paese, tra cui Radio Publique Africaine, l’emittente radiofonica più seguita del paese. Secondo IWACU, alle 10h30 le trasmissioni di RPA, Radio Bonesha e Radio Isanganiro sono state interrotte all’interno del paese “per motivi di sicurezza”, ma i programmi rimangono accessibili sui loro siti. Alle 11h15, la polizia ha iniziato ad accerchiata la sede di RPA, raggiunta sui luoghi da tre ministri del governo - quelli dell’Interno (Nduwimana), della Comunicazione (Tharcisse Kkezabahizi) e della Sicurezza pubblica (Gabriel Nizigama) - con l’intenzione di chiudere la radio. Una volontà confermata dal Presidente dell’Osservatorio dell stampa burundese, Innocent Muhozi. E’ iniziato allora un lungo negoziato tra i ministri e il direttore della radio, Bob Rugurika, con la presenza dell’ex Presidente burundese, Domitien Ndayizeye, e sotto lo sguardo curioso di giornalisti burundesi e stranieri, nonché una folla di simpatizzanti di RPA rimasti fuori dalla sede.



“Non siamo venuti qui per chiudere la radio, ma per discutere”, ha dichiarato Nduwimana. Una dichiarazione accolta positivamente dal direttore dei programmi di RPA, Gilbert Niyonkuru, che ha salutato “il ministro dell’Interno per aver scelto di dialogare con la direzione della nostra radio, sospendendo de facto gli effetti del mandato del procuratore della Repubblica”, Arcade Nimubona, che accusa RPA di spingere i manifestanti alla rivolta. La RPA era stata inoltre accusata di seguire in diretta le manifestazioni, gettando benzina sul fuoco e spingendo i burundesi a fuggire dal paese. Al termine delle discussioni, la RPA ha accettato di sospendere la copertura degli eventi in diretta, denunciando il fatto di essere l’unica stazione radiofonica minacciata di chiusura.
Oltre ad essere la radio più ascoltata del Burundi, RPA (e il suo direttore Rugurika) sono molto temuti dal regime per le numerose inchieste realizzate in passate per denunciare i casi di corruzione e di bad governance che si sono verificati nell’entourage del Presidente Nkurinziza. Grande scalpore aveva fatto l’arresto di Rugurika con l’accusa di “concorso in omicidio” dopo aver diffuso sulla sua radio un’inchiesta sul massacro di tre suore italiane nel settembre 2014 in cui una fonte anonima denunciava il coinvolgimento dei servizi segreti burundesi.
RPA e Radio Isanganiro fanno parte di un’agenzia massmediatica (Agence Infos Grands Lacs) creata dall’ong Panos Grands Lacs (IPGL), con cui VITA ha firmato poche settimane fa una partnership triennale per la produzione di contenuti al servizio dei media dell’agenzia presenti in Repubblica democratica del Congo, Burundi e Rwanda.




VIDEO: Cipro, ballottaggio per le presidenziali nel nord turco






La questione cipriota: quali scenari dopo l’elezione di Eroglu?

La vittoria elettorale dello scorso aprile ottenuta da Dervis Eroglu, nelle presidenziali svoltesi nella Repubblica turca di Cipro del Nord, fa affiorare numerose incognite in merito a quello che sarà il corso dei negoziati avviati, sotto l’egida delle Nazioni Unite, nel settembre 2008 tra le parti greco e turco cipriote.
Come noto, la linea politica di Eroglu è contraria all’unificazione dell’isola, protendendo più per un accordo fra due “Stati indipendenti”. Una posizione che risulta distante dai criteri negoziali portati avanti sino ad oggi e sostenuti dal presidente uscente Mehmet Ali Talat, il quale aveva sempre espresso, durante il suo mandato, la volontà di far coesistere due regioni e due popoli in un’unica federazione.
Già a seguito della sua vittoria elettorale, Eroglu, pur non essendo intenzionato a rompere i negoziati, aveva dichiarato di voler “rivedere ad uno ad uno” i temi già affrontati da Talat e dal suo omologo greco-cipriota Dimitris Christofias e di voler lottare per il riconoscimento dei diritti della popolazione turco-cipriota, per il quale occorrerà un dialogo con la madrepatria Turchia.







Appare naturalmente chiaro come l’annosa questione cipriota si inquadri nel più ampio contesto legato al processo di adesione di Ankara all’Unione Europea: in tale ottica il governo turco, che tra l’altro era stato criticato dalla stampa del Paese per non aver appoggiato in modo più esplicito la candidatura di Talat, ha a più riprese ribadito negli ultimi mesi il proprio ruolo di “garante” della Repubblica turca di Cipro del Nord (ad oggi ancora non riconosciuta dalle Nazioni Unite), pur affermando, con il suo premier Recep Tayyip Erdogan, la necessità di proseguire il processo negoziale avviato. Il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu, subito dopo il voto, è volato di sorpresa a Bruxelles per incontrare il commissario europeo responsabile per l’allargamentoStefan Füle e fornirgli rassicurazioni sulla fedeltà di Eroglu ai negoziati.
La stampa turca ha naturalmente seguito da vicino le elezioni nella Repubblica di Cipro del Nord; negli ultimi mesi analisti e politologi hanno fornito una serie di possibili spiegazioni sui motivi del cambio di rotta delle preferenze dei turco-ciprioti verso una figura che segna il ritorno alla politica della “vecchia guardia”, ma soprattutto sulle evenutali conseguenze di tale scelta per il futuro dell’isola nonchè per il percorso europeo della Turchia. Secondo le tesi prevalenti Eroglu ha ottenuto la maggioranza grazie ai voti dei ciprioti emigrati dalla Turchia, mentre gli “autoctoni” avrebbero scelto Talat. Avrebbero inoltre pesato sul voto, oltre allo scontento nei confronti della politica interna di Talat, l’immagine non proprio credibile dell’UE percepita dai turco-ciprioti, nonché l’amarezza per non aver visto mantenere nessuna delle promesse fatte dalpiano Annan.(1)
La questione cipriota: breve excursus storico
Al fine di delineare i possibili scenari futuri che si aprono per l’isola di Cipro a seguito delle recenti elezioni crediamo valga la pena spendere alcune parole per descrivere rapidamente le principali fasi storiche che hanno portato all’attuale situazione.
Colonia britannica dal 1925, Cipro ben presto si rifiutò di essere una pedina nelle mani degli imperialisti, al punto che già alla fine degli anni Quaranta iniziarono le agitazioni per l’autodeterminazione. Furono proprio tali fermenti a gettare le basi per l’odierno conflitto fra la Grecia e la Turchia: mentre infatti i greco-ciprioti auspicavano un’unione con la Grecia (aderendo al movimento noto come enosis, termine greco che significa “unione”), la popolazione turca non ne era affatto entusiasta. Nel 1950 la Chiesa ortodossa cipriota e il 96% dei greco-ciprioti si espressero a favore dell’enosis. In risposta gli inglesi redassero una nuova costituzione, che fu accolta dalla popolazione turca ma respinta dall’Organizzazione nazionale dei combattenti per la libertà di Cipro.
Nell’agosto del 1960 la Gran Bretagna concesse a Cipro l’indipendenza. Un greco, l’arcivescovo Makarios, assunse la carica di presidente, mentre il turco Kükük divenne vicepresidente. Nel 1964, alla luce dell’aggravarsi delle violenze tra i due gruppi etnici, le Nazioni Unite inviarono sull’isola le loro forze di pace. Nel 1967 una giunta militare si sostituì al governo greco e l’enosis venne abbandonata. La Grecia tuttavia non si arrese e nel 1974, con un colpo di stato organizzato anche con l’aiuto della CIA, depose Makarios rimpiazzandolo con un presidente fantoccio. La Turchia rispose con l’invasione di circa un terzo dell’isola, che costrinse quasi duecentomila greco-ciprioti ad abbandonare le loro abitazioni.
Nel 1983 i turco-ciprioti proclamarono uno Stato separato denominandolo Repubblica turca di Cipro del Nord (a tutt’oggi riconosciuto come Stato sovrano solo dalla Turchia); tale iniziativa, tuttavia, non interruppe i negoziati che portarono ad un summit tenutosi a New York nel gennaio del 1985, in occasione del quale un accordo preliminare promosso dalle Nazioni Unite fu accettato dalla comunità turco-cipriota, ma rifiutato all’ultimo momento dal presidente Kyprianou. Nei quindici anni successivi i negoziati furono rilanciati a più riprese, ma sempre senza giungere ad alcun esito. La situazione addirittura sembrò crollare nel 1998, allorchè il governo di Nicosia acquistò missili antiaerei dalla Russia, con l’intenzione di installarli sull’isola. Di fronte alla minaccia di ritorsioni da parte della Turchia, Nicosia raggiunse un accordo con la Grecia per l’installazione dei missili nell’isola di Creta, sotto controllo cipriota.
Nel corso del 2002 ripresero i colloqui tra le due comunità, resi più urgenti dalla volontà di Cipro e della Turchia di entrare nell’Unione Europea (Cipro aderì ufficialmente all’UE il 1° maggio 2004); tuttavia, nonostante le pressioni internazionali per la formazione di uno Stato federale con presidenza alternata, secondo quanto proposto dall’ONU, e i primi passi compiuti con l’apertura della frontiera greco-turca di Nicosia, risalente al marzo 2003, il cammino verso l’accettazione di un piano di pace non riuscì a compiersi, anche alla luce dei risultati del referendum del 2004, con il quale, mentre la maggioranza dei turco-ciprioti si dichiarò favorevole al piano di riunificazione, la maggioranza dei greco-ciprioti si disse contraria. Anche il Piano Annan, promosso nello stesso anno, non ha portato ad alcun miglioramento: esso ha preso il nome dall’ex segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e ha previsto la creazione di una “Repubblica Unita di Cipro”, con bandiera nazionale ed inno unificati. La nuova entità politica avrebbe avuto un presidente greco-cipriota, al quale si sarebbe dovuto affiancare un vice-presidente turco-cipriota, e sarebbe stata retta da un governo federale composto da due Stati costituenti, con un senato federale formato da ventiquattro turco-ciprioti e ventiquattro greco-ciprioti.
La questione cipriota: gli scenari futuri
Cerchiamo ora di esaminare i possibili scenari che si profilano per il futuro dell’isola con la presidenza Eroglu. Un primo scenario prevederebbe il fallimento dei negoziati e l’inizio del processo di separazione tra le due parti di Cipro. Secondo Cengiz Aktar, analista esperto di Unione Europea ed editorialista del quotidiano Vatan, tale scenario porterebbe alla trasformazione della Repubblica turca di Cipro del Nord nell’ottantaduesima provincia turca, ad un blocco dei negoziati tra UE e Turchia e allo stabilimento definitivo delle forze armate turche sull’isola, con conseguenze inevitabili sulla politica interna della stessa Turchia.
Un secondo scenario, invece, si aprirebbe nel caso la Turchia decidesse di avviare concessioni unilaterali per favorire la risoluzione della questione cipriota e la rapida prosecuzione dei propri negoziati di adesione all’Unione Europea: in quest’ottica  il governo turco potrebbe da un lato imporre la propria volontà a Eroglu mentre, dall’altro, potrebbe concedere unilateralmente l’apertura dei porti marittimi e aerei per agevolare le trattative con l’Europa.
Un terzo scenario, infine, prevederebbe un ampliamento dei negoziati per la risoluzione del problema cipriota, i quali verrebbero a coinvolgere non solo le parti cipriote greca e turca, ma anche la Turchia, la Grecia, l’Unione Europea, il segretariato e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: come sostiene lo stesso Aktar, per “trovare una soluzione per Cipro non ha più senso limitare le trattative ai due presidenti”.
Secondo invece Semih Idiz, analista politico di Milliyet, il sostegno turco al percorso negoziale avviato da Talat, la forte dipendenza economica di Cipro nord dalla Turchia e l’indebolimento del fronte nazionalista turco costituiscono “punti a sfavore” che renderanno la vita molto difficile ad Eroglu. Nel suo editoriale dello scorso 19 Aprile Idiz sostiene inoltre come ormai la Turchia non sia più quella di 10 anni fa, in quanto può contare su un’autorità internazionale maggiore, che le è derivata anche dalla posizione seria e coerente che ha assunto a favore della risoluzione della questione cipriota. Ciò comporterà inevitabilmente una maggiore influenza delle sue decisioni sul destino di Cipro, cui Eroglu non potrà sottrarsi.



sabato 28 marzo 2015

VIDEO: Elezioni in Nigeria: si preannuncia un testa a testa tra Jonathan e Buhari




Elezioni in Nigeria, paura per attacchi terroristici di Boko Haram: due morti

E’ tempo di elezioni in Nigeria: i cittadini hanno iniziato a votare per le elezioni presidenziali e parlamentari dalle 8.00 del 28 marzo 2015, giorno in cui sono stati aperti i seggi elettorali in un clima molto teso per la paura di attacchi terroristici da parte della milizie di Boko Haram, ma non solo. Si temono anche scontri fra i sostenitori dei due principali candidati. I due maggiori partiti hanno firmato dichiarazioni di pace, promettendo elezioni libere e giuste, di rispettare i risultati e invitando i loro sostenitori a evitare violenze. L’altra grande paura sono gli attentati del gruppo jihadista Boko Haram, che ha annunciato i più riprese di non voler lasciare che le elezioni si svolgano, soprattutto nel nord.

Alle urne sono chiamate a votare 46 milioni di persone, sul totale di 170 milioni di abitanti. Secondo i sondaggi prima del voto tra i due favoriti sarà testa a testa. Mentre il 78% della popolazione si prepara a votare, i favoriti riceveranno entrambi circa il 42% dei voti. Ingenti le misure di sicurezza, con 360 mila poliziotti e militari dispiegati. A Lagos, capitale economica del Paese, migliaia di persone hanno lasciato la città temporaneamente per il timore delle violenze post elettorali, già previste dagli analisti.




Il rinvio
Dopo un rinvio di sei settimane per ragioni di sicurezza, sabato 28 marzo si svolgono le elezioni per eleggere il presidente e il parlamento presidenziale. Inizialmente programmato per il 14 febbraio e il 28 febbraio, il voto era stato rinviato per la situazione delicata del Paese, dilaniato dal gruppo jihadista Boko Haram che ha preso possesso di molti territori
I Candidati
I candidati alla presidenza sono 14, ma i favoriti sono l’attuale presidente Goodluck Jonathan, 57 anni, cristiano, e l’ex generale Muhammadu Buhari, 72 anni, musulmano. Alle urne sono chiamati 56 milioni di persone, su una popolazione di 170 milioni di elettori regolarmente registrati che voteranno tra le 8 e le 13. I favoriti alla presidenza hanno firmato dichiarazioni in cui si sono impegnati per uno svolgimento pacifico del processo elettorale, invitando i sostenitori a non causare violenze.
Gli attentati
È di almeno due morti il bilancio di due attacchi contro i seggi per le elezioni presidenziali nel nord-est della Nigeria, attribuito a Boko Haram. Gli attacchi sono avvenuti nei villaggi di Birin Bolawa e Birin Fulani, nel distretto di Nafada dello Stato i Gombe, già preso di mira in passato dai miliziani jihadisti. Funzionari della Commissione elettorale hanno riferito che mentre aprivano il fuoco i miliziani hanno urlato: ”Non vi avevamo detto di boicottare le elezioni?”.
I precedenti
Nelle violenze che seguirono il voto del 2011 morirono 800 persone. Il governo ha chiuso le frontiere terrestri e marine, come precauzione mettendo sul territorio 360mila poliziotti e militari. A minacciare il normale svolgimento del voto è Boko Haram, la setta che si è radicalizzata nel 2009 e da allora tiene d’assedio diversi Stati del nord. Tra le violenze compiute, oltre ai massacri anche il sequestro di oltre 200 studentesse, mai salvate.




domenica 21 dicembre 2014

Tunisia al voto: si sceglie il presidente della Repubblica


TUNISI, 21 DICEMBRE 2014 – Al via al ballottaggio oggi tra Béji Caid Essebsi e Moncef Marzouki. Sotto un possente spiegamento di forze armate, ben 5 mila tunisini oggi sono stati chiamati al voto presidenziale che segnerà una trasformazione nella storia della Tunisia. Le urne chiuderanno alle 18, ora italiana, e i risultati dei seggi dovrebbe essere definitivi nelle prossime 48 ore.

La Tunisia dopo Ben Ali: Essebsi contro Marzouki

Sono passati quattro anni dall’inizio delle rivolte in Tunisia. Nel 2010 le proteste contro il regime di Ben Ali, hanno portato alle rivolte popolari che hanno costretto il presidente all’esilio. Il volontario esilio di Ali si è trasformato in una pena di 90 anni da scontare in carcere. La sua fuga è stato il segno di un cambiamento per la Tunisia che, dopo le sommosse popolari, ha vissuto un periodo di caos e disordini con due governi presidenziali tecnici, non scelti dal popolo. Sotto un dispiegamento di 60 mila uomini, oggi si cambierà la storia della Tunisia e i due primi ministri tecnici si sfideranno al ballottaggio. Il popolo dovrà scegliere tra Essebsi, avvocato e politico di 88 anni, e Marzouki, attivista rivoluzionario di 69 anni.
I sondaggi puntano molto su Béji Caid Essebsi, che ha ricevuto il 39,46% dei voti al primo turno. Appartenente al partito laico Nidaa Tounes, Essebsi è un veterano della politica tunisina nella quale ha ricoperto diverse cariche istituzionali, tra cui ministro dell’Interno, degli Esteri e della Difesa. Allontanatosi dalla scena politica intorno agli anni ’90, è tornato in carica come primo ministro del secondo governo provvisorio post Ben Ali. Moncef Marzoucki, invece, è fermo al 33,43% dei voti ma le ultime sfide di aperta campagna elettorale hanno previsto un cambiamento dei prognostici che davano per vincitore certo Essebsi. Marzoucki è un grande rivoluzionario e oppositore di Ben Ali e, nel 1991, ha fondato il primo partito clandestino, il Congresso per la Repubblica. Anche lui ha ricoperto la carica di presidente della Tunisia nel primo governo tecnico post rivoluzione.