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venerdì 8 dicembre 2017

VIDEO: Polveriera Gerusalemme, morti e oltre 200 feriti nel "giorno della rabbia"





Polveriera Gerusalemme, due morti e oltre 200 feriti nel "giorno della rabbia"






Due palestinesi sono rimasti uccisi negli scontri con le forze di sicurezza israeliane lungo il confine con la Striscia di Gaza. Lo riferisce il ministero palestinese della Sanità, che ha identificato una delle due vittime come Mohammad al-Masri, 30 anni, ucciso in scontri a est di Khan Younis. I feriti in questa nuova giornata di proteste, soprannominata "giorno della rabbia", sono oltre 270: la Mezzaluna rossa palestinese ha riferito di avere curato in totale 245 manifestanti feriti negli scontri in Cisgiordania e a gerusalemme; e il servizio di ambulanze ha fatto sapere che 11 di questi avevano ferite provocate da proiettili veri.
Gli altri sono stati feriti da proiettili di gomma o hanno riportato problemi a causa dell'inalazione di gas lacrimogeni. I palestinesi protestano contro la decisione del presidente Usa, Donald Trump, di riconoscere Gerusalemme come Capitale di Israele e trasferirvi l'ambasciata Usa da Tel Aviv. Le manifestazioni sono cominciate soprattutto dopo le preghiere del venerdì. 
Migliaia di persone hanno manifestato in diversi Paesi a maggioranza musulmana in tutta l'Asia, nel venerdì di preghiera, a sostegno dei palestinesi e per condannare la decisione Usa. Rafforzate le misure di sicurezza davanti alle ambasciate degli Stati Uniti. Proteste si sono tenute in Indonesia, Malesia, Bangladesh e nel Kashmir indiano. A Kuala Lumpur, capitale della Malesia, i dimostranti si sono radunati davanti all'ambasciata Usa, dove hanno intonato slogan contro gli Stati Uniti e hanno bruciato un'immagine di Trump.
Proteste in Giordania, in Turchia, in Egitto. E ancora in Tunisia. Tutto il mondo musulmano si è svegliato con manifestazioni di piazza. 
Ma intanto Gran Bretagna, Francia, Germania, Svezia e Italia invitano gli Stati Uniti a presentare proposte dettagliate per la pace tra Israele e palestinesi e si dicono in disaccordo con la decisione del presidente Donald Trump di riconoscere gerusalemme come capitale di Israele. In una dichiarazione congiunta dopo la riunione che si è tenuta oggi, i cinque Paesi Ue, hanno affermato che la decisione degli Stati Uniti, che prevede di spostare l'ambasciata statunitense a Gerusalemme da Tel Aviv, è stata "inutile in termini di prospettive di pace nella regione".




"Siamo pronti a contribuire a tutti gli sforzi credibili per riavviare il processo di pace, sulla base di parametri concordati a livello internazionale, portando a una soluzione a due Stati", hanno detto, aggiungendo: "Incoraggiamo l'amministrazione degli Stati Uniti a presentare proposte dettagliate per un accordo isra-palestinese".




lunedì 17 luglio 2017

VIDEO: NOTIZIE DAL FRONTE





RAQQA. “Quando i proiettili “zippano" vicino alla testa ti butti per istinto a terra, ma il sibilo vuol dire che non sei stato colpito. I colpi di mortaio li senti partire e non sai mai se ti piombano addosso o ti passano sopra. Alla fine ti abitui”. In un’abitazione abbandonata, che segna la prima linea, comincia così l’esclusivo racconto di guerra di due italiani, che combattono lo Stato islamico a Raqqa al fianco dei curdi. Niente nomi se non quelli di battaglia. Cekdar Agir, che in curdo vuole dire dire “combattente e fuoco” è un anarchico di Torino di 41 anni, baffoni biondi e occhi azzurri. Botan viene anche lui dal nord Italia ed ha 30 anni. La famiglia è all’oscuro che combatte in Siria e per questo non vuole farsi fotografare a volto scoperto. In guerra da 8 mesi sono due dei quattro italiani sul fronte di Raqqa. Negli ultimi anni hanno combattuto fra le fila dell’Ypg, le Unità di protezione popolare curde nel nord della Siria, una ventina di connazionali. Reportage di Fausto Biloslavo







DAKUK - L’ufficiale curdo apre il fuoco contro le postazioni dei cecchini dello Stato islamico. Sul fronte di Hawjia, l’ultima sacca jihadista dopo Mosul, nel nord dell’Iraq, i tiratori scelti delle bandiere nere hanno centrato in testa un Peshmerga, pochi giorni fa. L’italiano Alex Pineschi, in tenuta da combattimento, dà una mano ai soldati curdi della 9° brigata, che avvicinano la mitragliatrice pesante montata sul cassone del fuoristrada al vallo, la linea di difesa lunga 36 chilometri a sud di Kirkuk. L’arma si inceppa, ma Alex la sblocca ed il Peshmerga spara, con un secco boato, proiettili da 12,7 millimetri verso le linee nemiche. Reportage di Fausto Biloslavo






I proiettili sibilano sopra le nostre teste o rimbalzano impazziti sulle macerie nell’ultima, feroce battaglia che ha liberato Mosul, la “capitale” del Califfato in Iraq. Il generale Shaker Jawdat, capo della polizia federale irachena, ha annunciato ieri la conquista della città vecchia nella zona ovest. L’ultimo bastione jihadista, dove, in realtà, rimangono ancora cellule e sacche di irriducibili, ma le bandiere nere sono oramai sconfitte. Nonostante lo Stato islamico abbia risposto che i suoi uomini continueranno a combattere fino alla morte. E così è stato durante la battaglia finale di venerdì nella parte antica di Mosul. Il paesaggio nella città vecchia, ultimo ridotta dello Stato islamico, è lunare: le case, una attaccata all’altra sono sventrate, annerite delle fiamme o fatte a pezzi dagli attacchi aerei, dopo 9 mesi di furiosi scontri. Le raffiche di mitragliatrice degli ultimi jihadisti di Mosul sono rabbiose, ma è al fruscio della morte che non ti abitui. L’artiglieria tuona da chilometri di distanza. Quando il colpo arriva sopra le nostre teste fendendo l’aria, come una sciabola sguainata, sembra sempre che ti piombi addosso. Pochi secondi dopo la granata esplode sulle postazioni delle bandiere nere con un pauroso boato. Un manipolo di 200 miliziani votati alla morte era asserragliato, con le unghie e con i denti, in un fazzoletto dell’antica Mosul. I seguaci del Califfo, completamente circondati e con alle spalle il fiume Tigri hanno continuato a combattere senza speranza.



 





martedì 11 luglio 2017

Isis, tv irachena conferma morte al-Baghdadi: "Presto il successore”

MOSCOW, Jul. 11 (MNA) – ISIL terrorists confirmed the group leader Abu Bakr al-Baghdadi is dead, Al Sumaria TV channel reports citing a source in the Iraqi province of Nineveh.
According to the source, Daesh terrorists issued a brief statement in which they reported the death of their leader Abu Bakr al-Baghdad i, as well as the name of the "new Caliph.



    



On June 16, the Russian Defense Ministry said al-Baghdadi was likely eliminated as a result of a Russian Aerospace Forces strike on a militant command post in the southern suburb of the city of Raqqa in late May. It noted that it was in the process of confirming the information through various channels.
On June 23, US Operation Inherent Resolve Col. Ryan Dillon said that the US has no conclusive evidence to believe that Baghdadi was killed in Russian airstrikes. However, the US "certainly would welcome the death of al-Baghdadi, but we do not have any definitive proof to lead us believe that this is accurate," he added.
On June 29, Russian lawmaker Alexei Pushkov told Sputnik that the information of the Russian side the probability of al-Baghdadi's death is about 100 percent. The lawmaker noted that information received from different sources indicated that there was a power struggle within ISIL for its top position, which serves as signal that al-Baghdadi is dead.
Al-Baghdadi appeared in the media for the first time in 2014 when he declared the creation of a caliphate in the Middle East. Since then, the media have reported several times about the death of the ISIL leader, though the information has never been confirmed.




L’emittente Al Sumariya cita una “fonte nella provincia di Ninive” che avrebbe informazioni dallo Stato islamico e parla di un imminente annuncio del nome del nuovo Califfo. Anche l’Ondus dà notizia del decesso del leader di Daesh, dubbioso il sito World Conflict News
Abu Bakr al-Baghdadi, Califfo dell’autoproclamato Stato Islamico, sarebbe morto e l’Isis dovrebbe annunciare a breve il nome del suo successore. È quanto rivela la televisione irachena Al Sumariya che cita "una fonte nella provincia di Ninive”. Ma sul web si susseguono notizie contrastanti: un’ulteriore conferma arriva dall'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria, mentre il sito World Conflict News sottolinea che non c'è traccia di questa comunicazione sui consueti canali informativi dell'Isis.

“Presto il nuovo nome”

L’emittente, che ha dato altre volte in passato notizie sul ferimento di al-Baghdadi, afferma che la "fonte", non precisata, riferisce che la conferma della morte del Califfo arriva dall'Isis. "Le autorità di Daesh a Tel Afar, diventata la capitale provvisoria dell'Isis dopo la caduta di Mosul, hanno annunciato la morte di Baghdadi, senza fornire dettagli, e hanno detto che il nome del nuovo Califfo verrà annunciato presto", avrebbe riferito la fonte. L'annuncio era atteso, spiega ancora la fonte, "perché le autorità dell'Isis, due giorni fa, avevano all'improvviso tolto il divieto di fare riferimento in pubblico alla morte di Baghdadi".

La conferma dell’Ondus

Dopo la notizia diffusa dall’emittente irachena, l'Osservatorio nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus), con sede in Gran Bretagna ma con una vasta rete di informatori nel Paese, ha affermato di avere "informazioni confermate" sulla morte di al-Baghdadi. L'Ondus dice di avere ricevuto le notizie da dirigenti dell'Isis nella provincia orientale siriana di Deyr az Zor, che però non hanno precisato quando il decesso sarebbe avvenuto.

La notizia della morte il mese scorso

Al-Baghdadi è stato dato più volte per morto o ferito negli ultimi anni, l’ultimo annuncio è stato fatto dalla Russia il 16 giugno scorso, quando disse di avere forse ucciso il capo dell'Isis in un raid a sud di Raqqa, in Siria, il 28 maggio. Tuttavia, le autorità di Mosca hanno poi dovuto ammettere di non avere le prove e anche la coalizione anti-Isis a guida Usa aveva dichiarato di non potere confermare la notizia.






sabato 1 luglio 2017

REPORTAGE: Mwavita, nata in tempo di guerra






Mwavita
from gliocchidellaguerra on Vimeo.

Mwavita. Nata in tempo di guerra è una delle opere finaliste al Premio Giornalistico Internazionale Marco Luchetta. Il Premio vuole essere un riconoscimento dei lavori giornalistici che meglio sono riusciti a comprendere e comunicare il dramma e la sofferenza di quanti nel mondo sono vittime indifese della violenza. 
Se si protende l’orecchio e si presta attenzione, ancora si sente l’eco di quel grido, che da più di un secolo sta attraversando le foreste del Congo: ”L’orrore! L’orrore!”.
Sovrasta le urla delle scimmie e lo scrosciare incessante della pioggia e, se lo ascolti, ti penetra così dentro, da trasmettere brividi e vertigini, perché il ”Cuore di tenebra”, la Repubblica Democratica del Congo, annienta ottimismi, non dà spazio alla speranza e annichilisce ogni residuo interiore di utopia; chi sceglie di venire quaggiù, per guardare negli occhi il male e raccontarlo, deve mettere in gioco quella personale fiducia nell’indomani, che spesso lenisce le sofferenze intime del proprio io.
La Repubblica Democratica del Congo è una terra maledetta; qui il mondo della vita e della morte sono un unico costante, dove tutto è saldato dal comunismo del male, dalla sofferenza nazionalizzata, da un dolore talmente ordinario che, come una nebbia di follia e violenza, impedisce di scorgere un contingente umano non contaminato da una cieca e impietosa crudeltà.
Sin dai tempi in cui lo Stato Libero del Congo era un possedimento personale di re Leopoldo II, questa regione ha sempre dato al mondo ciò che il mercato chiedeva: si è iniziato con gli schiavi e si è proseguito con la gomma, il rame, l’ oro, l’ avorio, il legno, i diamanti, il titanio, l’uranio, il metano e, infine, il coltan. In cambio il Congo ha ricevuto la peggiore crisi umanitaria della storia. È qua infatti che si è consumata la più grave tragedia contemporanea, dopo la seconda guerra mondiale, con oltre 6 milioni di morti, genocidi silenziosi, conflitti etnici e decine di gruppi armati che infestano ancor oggi il Paese, soprattutto nelle le regioni dell’est. Là, dove il sottosuolo abbaglia, proseguono infatti indisturbate le guerriglie per il suo controllo e, così, l’ orrore che ha, appunto, infettato ogni aspetto della società: uomini che vivono sepolti giorno e notte nelle miniere alla ricerca di una nuova vena aurifera, bambini armati di kalashnikov che li tengono sotto sorveglianza e donne divenute il terreno di battaglia della violenza di sessi anonimi, brutali come baionette, che condannano madri e figlie a una morte terrena senza abbuoni di pena e sconti all’innocenza.
Una capanna di terra e fango sulla via principale di Rutshuru. Una donna sta rientrando nella sua abitazione con una tanica d’acqua. Ha sessant’anni ma, a prima vista, è difficile attribuirle un’età: cammina ricurva, il volto è il ritratto di una povertà feroce e la sua storia è un’ode non voluta a una sacra pazienza del vivere. Si chiama Jeanna Gasimba e, seduta all’interno della sua casa, prende il coraggio di raccontare il suo vissuto: ”Io sono originaria di Rutshuru, dove nel 2012 c’era la guerra. C’erano i ribelli M23 e ovunque si vedevano i militari. Un giorno andai a prendere della verdura e degli uomini abusarono di me. Non dissi niente a nessuno ma decisi di andarmene a Mweso, dove avevo dei parenti, e scappai insieme ai miei figli”. Jeanna, che oggi lavora nella cooperativa a sostegno delle donne vulnerabili creata dall’Ong italiana Avsi, prende fiato e prosegue: ”La guerra però arrivò anche là e vidi cose terribili: villaggi dati alle fiamme e persone uccise a colpi di zappa; mio figlio fu ammazzato da un gruppo di uomini armati e mia figlia, anche lei, pochi mesi fa, è stata stuprata”. La madre gira la testa e lo sguardo corre verso un angolo buio della casa. Bora Uzima ha 18 anni, è seduta per terra e morde un lembo del vestito ogni volta che dei dolori le trafiggono il ventre. Ed è la madre a spiegare: ”Lei ha dovuto abbandonare gli studi perchè dopo la violenza è rimasta incinta e, oltre ad essere quasi al termine della gravidanza, ha anche dei problemi alla vagina a causa dello stupro. Io sono disperata; non abbiamo soldi e io e mia figlia condividiamo lo stesso orrore: quello di essere state violentate. È atroce”.
La violenza sessuale è una metastasi che dilania il Paese. Lo stupro come un virus si è insinuato nella Repubblica Democratica del Congo durante la seconda guerra congolese. Fu alla fine degli anni ’90 che incominciarono a registrarsi i primi casi di donne abusate e torturate. Una barbarie introdotta nella regione dei Grandi Laghi come arma di guerra, che poi ha preso sempre più piede: violenze commesse da ribelli e banditi comuni, da milizie armate e truppe lealiste ed è così che si è arrivati, stando alle cifre delle Nazioni Unite, a registrare oltre 15mila casi di donne abusate nel solo 2015, che significa un caso di violenza ogni mezz’ora.
L’odore di disinfettante e urina impregna la sala operatoria dell’Ospedale Panzi di Bukavu. Una donna è sdraiata sul lettino, mentre il dottore John Peter Mulindwa, assieme alla sua equipe, sta effettuando un intervento di ricostruzione vaginale. Un altro medico intanto ha finito un’operazione di chirurgia e toglie mascherina, guanti e camice: è statuario, cammina nei corridoi come un marabutto della chirurgia, perché nel Kivu il dottor Denis Mukwege è più di un medico, è la rappresentazione della lotta contro la violenza sessuale. Candidato al Premio Nobel nel 2014 e vincitore nello stesso anno del premio Sakharov, il chirurgo si muove scortato dagli uomini della polizia, dal momento che hanno già cercato di ucciderlo con un attentato, e, una volta entrato nel suo ufficio, racconta: ”Chi abbia cercato di assassinarmi? Non lo so; certo è che quando si denunciano dei crimini, i malfattori non ti applaudono, ma fanno il possibile perchè tu taccia. Io ho iniziato a dedicare la mia vita alle donne vittime di violenza quando, durante la guerra, ho visto i primi casi di abusi. Eravamo impreparati e le donne che venivano in ospedale versavano in una condizione devastante, con gli organi interni dilaniati”. Il dott. Mukwege, che si è dovuto occupare non solo della violenza carnale, ma anche di torture, come l’introduzione di oggetti taglienti nell’apparato genitale e l’amputazione dei seni e del clitoride, prosegue dicendo: ”Lo stupro è una piaga sociale, distrugge le donne e la società, perché le vittime non vengono considerate come tali, ma sono colpevolizzate, vengono tacciate di essere delle prostitute e vengono allontanate sia dai mariti, che dalla comunità. Per non parlare poi di coloro che contraggono l’hiv, che è una malattia che provoca un’ulteriore esclusione sociale”. Interrogato poi su cosa sia necessario fare perchè questa situazione cessi, il candidato al Nobel ha chiosato: ”Innanzitutto che i colpevoli vengano puniti. Perchè l’impunità fa si che i criminali continuino a compiere queste atrocità. E poi occorrerebbe una ferma volontà politica, nazionale e internazionale, affinchè si fermi il saccheggio delle materie prime del Congo e, conseguentemente, anche la guerra per il loro possesso”.



Ma, ad oggi, l’odore della morte non sembra volersene andare dal Congo. Ne sono intrise le foreste ne sono portatrici le nuvole e il suolo è rosso sangue, come se fosse stato innaffiato da questo supplizio terreno, cristallizzato ormai nell’eternità congolese. Per rendersene conto, è sufficiente percorrere quelle piste di fango che fendono le mura della giungla africana e arrivare nel villaggio di Kavumu, a pochi chilometri da Bukavu. Qui, dal 2013 al 2016 un incubo, difficile anche solo da immaginare, si è verificato nel silenzio assoluto. Durante questo periodo, infatti, 44 bambine, dai 2 agli 11 anni, sono state prelevate di notte, condotte nella foresta e poi ripetutamente violentate da uomini armati, che hanno abusato di loro, presumibilmente perchè persuasi da uno stregone che avere rapporti con una vergine e versare il suo sangue avrebbe garantito invincibilità e ricchezza. I colpevoli, 74 miliziani, che sono risultati fare capo al deputato Frederic Batumike, ora sono in carcere in attesa di essere processati per stupro e crimini contro l’umanità ma, intanto, un marchio di orrore che non concede scampo è stato impresso: e niente potrà toglierlo.

Beatrice ha 11 anni, è una bambina con due occhi neri, profondi, che racchiudono un male totalizzante e sembrano urlare una rabbia assoluta nel silenzio della casa dove vive con sua nonna. Quando, sotto la pioggia incessante, si dirige verso i campi, viene additata da tutti: e sola, portatrice della violenza dell’atroce follia maschile, in un dolore che per gli altri è invece considerato colpa e vergogna, attraversa le vie del villaggio di Kavumu. Cammina senza mai voltarsi, alle spalle l’innocenza perduta, davanti nessuno futuro, ma un puro presente di tragedia, da cui non può fuggire. Lacrime e pioggia diventano un tutt’uno, mentre lo sguardo rincorre la sagoma di Beatrice, che si perde nella foschia di una terra che instaura in chiunque la calpesti un senso di colpevolezza innato e una paura primigenia per l’ubiquo dolore altrui.



venerdì 30 giugno 2017

VIDEO: Igor il Russo: caccia finita, ricerche sospese. Si passa alla fase due





Novità nelle ricerche di Igor il Russo, la caccia al latitante con i reparti speciali è terminata, dopo tre mesi le indagini passano alla fase due, a nulla sono serviti i cani molecolari, visori termici, droni. Le ricerche non hanno portato nessun risultato. Ma le indagini continuano.





“Lo prenderemo”, assicurano gli inquirenti, ma intanto Igor il russo continua a essere latitante e dopo tre mesi di caccia all’uomo fallimentare, le indagini passano alla fase due. Sono stati ritirati i reparti speciali dalle zone di Bologna e Ferrara, dato che Norbert Feher potrebbe già essere ormai lontano, molto lontano. Cacciatori di Calabria e di Sardegna non cercano più Igor Vaclavic, altro nome con cui il fuggitivo è conosciuto, ma il ritiro dei reparti speciali non ha lasciato del tutto abbandonata la zona. Infatti ci sono ancora dei gruppi di militari pronti ad agire in caso di bisogno, ossia se ci dovesse essere qualche avvistamento ritenuto credibile.




IGOR IL RUSSO ANCORA LATITANTE


Igor il russo è latitante, evidentemente, è riuscito a scappare, con o senza complici, dopo aver ucciso due persone, lasciando – a quanto pare con estrema facilità – la zona dove migliaia di uomini hanno provato a stanarlo. C’è la speranza di trovarlo, ma magari molto lontano dall’Italia. Infatti la ‘fase 2′ delle ricerche ora passa agli investigatori che proveranno con le ‘classiche’ indagini svolte dai reparti investigativi e non più dai reparti speciali dei carabinieri.

GLI OMICIDI DI IGOR IL RUSSO

Igor Vaclavic, il russo, soprannome di colui che invece si chiama Norbert Feher, ha ucciso Davide Fabbri, titolare di un bar a Riccardina di Budrio, lo scorso 1 aprile, dopo una rapina finita male nel suo locale. Solo dopo sette giorni il 36enne di origine serba si è reso responsabile di un altro omicidio, quello di Valerio Verri, volontario della guardia ecologica ambientale che lo aveva incrociato – disarmato – a Portomaggiore, in una battuta anti-bracconaggio insieme a Marco Ravaglia, salvatosi solo perché, come ha raccontato, si è finto morto.





DOV’E’ IGOR IL RUSSO?

A Bologna e Ferrara se lo chiedono tutti: com’è possibile che il killer di Budrio sia riuscito a sparire dalla circolazione senza lasciare una traccia, una sola? Possibile che Norbert Feher ‘Ezechiele’, come si faceva chiamare in cella, non ha compiuto nessun errore? La caccia all’uomo prosegue, ma le ultime tracce del fuggitivo risalgono ad aprile, a Marmorta di Molinella, quando due pattuglie dei carabinieri intercettarono il fiorino su cui si muoveva, ma non riuscirono a fermarlo e lui scappò nei boschi, sparendo nel nulla.

LE NUOVE RICERCHE PER CATTURARE IGOR IL RUSSO

Con la speranza di capire se c’è stato qualcuno che lo ha aiutato, gli investigatori stanno setacciando le amicizie di Norbert Feher e i suoi contatti sia nella ‘zona rossa’ che nel resto di Italia e all’estero. Intanto a Budrio, per venire in aiuto della vedova di Fabbri, Maria Sirica, l’Ascom ha deciso di installare otto telecamere di sorveglianza all’esterno del bar per dare alla donna un po’ di serenità.




domenica 25 giugno 2017

Tyson: The last interview





The interview with the militiaman "Tyson" by Chega (Rot Front) in the hotel where the militants of the Prizrak Brigade rest, in the city of Alchevsk (People's Republic of Lugansk).

"Tyson" was killed by the Kyiv government's troops on May 7, 2017 in Frunze village. His life ends up on Donbass's land, like that of hundreds of other valiant men and women who have decided to face this war in the forefront. Their faces are so many and we will never forget them.


In Donbass non c’è la pace, ma neanche una guerra nella accezione classica del termine, è una situazione congelata che continua a mietere vittime, civili e militari, su ogni lato del fronte.
La guerra combattuta con le armi per me è finita da mesi, aspetto dei documenti con cui poter tornare a casa. Sto nelle retrovie in una struttura della Prizrak dove vanno a riposare i soldati durante i congedi.  Un luogo particolarmente noioso. Per fortuna ogni tanto vi giungono anche i compagni più cari con cui si possono passare dei bei momenti. Verso la metà d’aprile arrivò Tyson, aveva preso due settimane di riposo per recuperare dalle fatiche della guerra. Era un vero comunista, critico con gli attuali partiti comunisti, si considerava “sovietico”. Era buono e estremamente positivo. Aveva il fisico da pugile, sport che adorava. Vestiva solo con uniformi della guerra in Afganistan, ce le aveva tutte, estive ed invernali. Sul berretto, oltre alla stella rossa con falce e martello, aveva la spilletta della gioventù comunista dell’Unione Sovietica. Fui molto felice di stare con lui, era un vero amico. Oltretutto parlava un po di inglese, con il quale sopperivamo alle carenze del mio russo, quindi il confronto poteva essere più approfondito. Avevamo una buona sintonia politica, vedevamo le cose in maniera analoga. Eravamo anche d’accordo sul fatto che la guerra aveva preso una piega senza senso, se non veniva dato l’ordine d’attaccare su vasta scala si sarebbe potuti rimanere per decenni in una situazione di tensione che tuttavia causa la morte di tante persone. Questa prospettiva gli sembrava insensata, ma era pronto ad andare avanti nella lotta, qualsiasi cosa pur di non riconsegnare neanche un centimetro di terra ai fascisti.
Un giorno mentre mangiavamo gli dissi che nel giro di pochi giorni sarebbe arrivata la Carovana Antifascista e gli spiegai il progetto. Era sbigottito, pensava che lo prendessi in giro, non poteva credere che in questo posto sperduto avrebbe potuto incontrare uno dei suoi gruppi preferiti. Amava la Banda Bassotti e non avrebbe mai pensato che avrebbe potuto incontrarla proprio qui. Il suo congedo sarebbe finito il 30 aprile, esattamente il giorno in cui era previsto l’arrivo della Carovana, le cose sembravano filare al meglio. Purtroppo il 29 aprile venne richiamato d’urgenza in servizio, avevamo subito un attacco in cui erano morti 5 compagni e lui doveva partecipare al rimpiazzo delle vittime. Era molto dispiaciuto per non poter partecipare all’incontro, ci consolammo promettendoci di andare a vedere insieme un concerto della Banda Bassotti, o in Donbass, o a Mosca, o a Roma quando mi sarebbe venuto a trovare dopo la fine della guerra. Tornò al fronte, ci salutammo con un “arrivederci” e non con un “addio”, gli promisi che prima di partire lo sarei andato a salutare.
Il 7 maggio abbiamo subito un duro attacco, con diverse perdite. Tyson era uno di loro. Non lo rivedrò più. Le promesse fattemi con lui finiranno nel mucchio di quelle che non potranno essere mantenute a causa della morte; queste promesse sono tante, sempre di più. Ogni volta che muore un compagno è un colpo molto duro, ma quando questo è anche un amico, il dolore è insostenibile.
Lui concordava con la mia scelta di continuare la lotta solo sul piano politico, almeno fino al giorno in cui non ci saranno offensive su vasta scala, quindi non cambierò la mia idea, anzi la rafforzerò per lui e per tutti gli altri compagni caduti.
Tyson e gli altri sono morti per un mondo migliore, un mondo socialista, ora sta a noi costruirlo. Questo è il modo migliore d’onorare la loro memoria.

Ora i nostri pugni si levano al cielo per salutarvi, ma poi torneranno a colpire i nostri nemici.

Nemo, Alchevsk 7 maggio 2017