Post più popolari

Visualizzazione post con etichetta accordi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta accordi. Mostra tutti i post

martedì 15 dicembre 2015

VIDEO: Cosa accade in Libia oggi







In Libia l’Isis/Daesh ha preso il controllo di Sabrata, un patrimonio dell’umanità UNESCO a 70 chilometri a ovest di Tripoli.
E’ vero che, come sostiene il ministro degli Esteri russo Lavrov, il Califfato tende ad esagerare i suoi successi, ma in Libia gli uomini di Al Baghdadi ci sono, non vi è dubbio.
E la linea russa di costruire una coalizione ampia contro il jihad “della spada” è certamente giusta, ma, per dirla con una poesia di Kavafis, “i barbari sono già alle porte”, e i tempi diplomatici necessari a costruire una grande unità come avvenne per sconfiggere l’Asse, sono inevitabilmente troppo lunghi per non favorire, anche indirettamente il Califfato.
Intanto, le rappresentanze politiche libiche riunite a Roma al Rome Med Forum 2015 l’11 dicembre scorso, Habib Essid, ministro tunisino degli esteri, ha sostenuto l’accordo dell’ONU per la formazione di un governo di unità nazionale libico.
Ovvio, se non si stabilizza subito la situazione tra Fezzan, Cirenaica e Tripolitania, la Tunisia vede giustamente una minaccia alla sua sicurezza nazionale. Che è anche la nostra, dato che Tunisi è il vero “dente” strategico per la penetrazione della penisola.
Bei tempi, quando un grande direttore del Sismi, l’amm. Fulvio Martini, elaborava un piano per sostenere il “nostro” candidato alla successione dopo Habib Bourghiba, ovvero Zine el Abidine Ben Ali.
Ora siamo al rifiuto pregiudiziale italiano dell’intervento armato, mentre alcuni elementi delle nostre Forze Speciali, insieme a francesi, tedeschi e statunitensi, stanno valutando i punti di forza e di debolezza potenziali per un attacco dal mare, senza peraltro prevedere un sostegno successivo e una protezione da terra.
La paura atavica e il pacifismo sessantottino di certi nostri politicanti rischiano di far fallire una possibile operazione contro jihadisti fanatici sì, ma poco armati e con una pessima logistica.
Meglio sarebbe stato per il governo italiano evitare di propalare progetti futuri per la Libia e farsi carico invece di costruire una coalizione militare per arrivare in Libia con il consenso di entrambi i governi locali, per un fine preciso e tutt’altro che pacifico.
Ovvero quello estirpare le aree del jihad nel più breve tempo possibile, chiedendo peraltro il sostegno strategico e logistico di Tunisia, Algeria e Egitto, tutti paesi nostri amici e direttamente interessati alla eliminazione del jihad della spada.
Per non parlare poi del ministro italiano della Difesa in carica, che ha definito “fascisti” quelli dell’Isis, forse fuorviato dal colore delle loro bandiere, facendosi ridere dietro da tutti gli storici, compresi quelli di sinistra.
Cattiva imitazione della propaganda interna USA, che utilizza il termine “nazism” solo perché è l’unico conosciuto dalla gran parte della propria popolazione.
Se quindi la Tunisia vuole l’attuazione della proposta dell’ONU gestita dal nuovo, e più efficace del predecessore Bernardino Leon, , rappresentante UNSMIL Martin Kobler, allora diminuisce la probabilità che vada in porto la proposta, fatta da alcuni gruppi dei due parlamenti libici, di un governo di unità nazionale senza l’implementazione della piattaforma ONU.
Ma perché i libici dovrebbero accettare la linea dell’UNSMIL?
L’accordo non prevede alcuna trattativa, che peraltro non è avvenuta in Tunisia finora, tra l’ONU e le tante realtà politiche e tribali che magari sono armate e si fanno guerra tra di loro, ma non sono affatto riconducibili all’Isis/Daesh.
Per esempio i Warfalla, oppure l’unione, segnalata da alcuni analisti, tra gruppi di razza nera del meridione libico e le armate filogheddafiane, che vogliono “liberare la Libia dalle forze NATO”, per dirla con la loro propaganda.
La loro base è Sabha, e ancora non è chiaro se alcuni attacchi al governo di Ali Zeidan siano stati portati dai jihadisti o dalla guerriglia “verde” postgheddafiana.
Le tribù di razza nera, i Tawergha e i Toubou, sono state fatte oggetto di azioni di “pulizia etnica” da parte delle milizie arabe e non hanno alcuna rappresentanza nei due governi più o meno legittimi.
Toubou e Tuareg vogliono controllare direttamente l’area di El-Sharara, nel Fezzan, dove sono situati anche importanti pozzi petroliferi.
Perché, se parliamo di legittimità, entrambi sono piuttosto deboli.
Poi tutte le armate “indipendenti”, che sono circa 40, che non sono state attivate per discutere l’accordo UNSMIL e che non l’accetteranno fino a quando non lo troveranno utile, anche dal punto di vista economico.
Non vi è poi, nell’accordo ONU recentemente sottoscritto, una nota esplicita sulla sicurezza dell’area. Nell’ultimo documento presente sul sito dell’UNSMIL, si fa riferimento alla buona volontà dei membri dei due governi e del popolo “per desistere da ogni tentativo e manovra tali da bloccare il processo democratico e mettere in pericolo i risultati del dialogo”.
La buona volontà in politica, soprattutto in quella estera, si sa che posto ha. “Meglio essere pazzo per contro proprio, che savio per volontà altrui”, come diceva Nietzsche.
Quindi, se l’UNSMIL non provvederà concretamente, con un accordo di carattere militare, alla sicurezza del territorio e alla regolarità del processo politico, nel quale debbono essere inseriti tutti i gruppi tribali non jihadisti, Tobruk e Tripoli continueranno a farsi la guerra per interposta fazione.
Ed è ovvio che sia così: il lungo vuoto di potere, favorito dall’inerzia e, talvolta, so di usare una parola pesante, stupidità degli occidentali che hanno sconsideratamente attaccato il regime gheddafiano per portarci via l’ENI, ha fatto sì che ogni fazione dei due governi sia il referente libico di poteri esterni: Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Turchia.
O si studia un progetto di stabilizzazione della Libia parlando e trattando, duramente, con questi attori o non si arriva a niente, solo ad una pace di facciata tra i due governi “legittimi” che continueranno a separare, per i loro fini, le tribù, i gruppi etnici, le milizie.
Certo, la Libia è, nei progetti sauditi, una pistola puntata su una Europa che non volesse sostenere i progetti di Riyadh nel Grande Medio Oriente. Petroliferi e non.
Per la Turchia, la Libia è la conquista di una profondità strategica marittima nel Mediterraneo che è essenziale alla sua espansione neo-ottomana in Asia Centrale; e Ankara qui non si fida affatto dei suoi alleati della NATO.
Il Qatar gioca il suo gioco di contrasto con i sauditi, che ha fondamenti sia geoeconomici che ideologici: l’Emirato è un punto di riferimento della Fratellanza Musulmana che ha generato anticamente quei gruppi che si sono fusi nel partito turco oggi al potere, l’AKP di Erdogan ed è proibitissima in Arabia Saudita.
E la Fratellanza vuol dire anche una presa efficace su tutto il ciclo della finanza islamica, dove i “Fratelli” sono ben rappresentati.
L’Egitto, è ovvio, non vuole infezioni jihadiste ai suoi confini e, soprattutto, non vuole un potere islamista in Libia tale da radicalizzare i tantissimi lavoratori egiziani presenti in quel Paese.
Quindi, rapida programmazione, in ambito NATO e ONU, di una Forza di Stabilizzazione libica, che però sia dotata di Regole d’Ingaggio più adatte alla guerra che non agli incontri per il tè, come erano le prime ROE per l’Afghanistan, Forza di Stabilizzazione nella quale l’Italia abbia il ruolo che merita.
In secondo luogo, trattare seriamente con tutti gli attori non jihadisti libici, anche per limitare lo strapotere, non sappiamo quanto elettoralmente legittimo, dei due governi.
Usare anche quelli che ora sono stati esclusi dalle trattative di Skhirat, in Marocco, per equilibrare la politica interna libica e assicurarsi che nessuno rompa gli accordi.
Smetterla, infine, di pensare che la crisi libica sia una questione regionale, perché coinvolge tutto l’assetto futuro del Mediterraneo e riguarda la sicurezza interna ed esterna del nostro Paese.
Sostenere poi il ministro degli esteri russo Lavrov per arrivare ad una Coalizione politico-militare la più vasta possibile.
La questione delle sanzioni alla Russia è solo una parte del problema.
La questione è che noi non siamo ai confini del territorio russo, non abbiamo necessità, come altri Paesi, di una protezione credibile verso l’Est slavo, e quindi il nostro interesse nazionale è quello di sostenere Mosca in una nuova egemonia delle civiltà dell’Occidente nel Mediterraneo, che non bagna Washington e nemmeno New York.
Multilateralismo, postura e minaccia militare credibili, controllo attento del mare, dato che i rifornimenti all’Isis/Daesh arrivano alla Sirte per nave.



Non so dire se il diritto internazionale permetta o meno una azione militare contro un naviglio che va a rifornire il Califfato libico, ma mi ricordo che, come diceva Mao Zedong, il potere siede sulle punte dei fucili.



La conferenza stampa congiunta del Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Paolo Gentiloni, del Segretario di Stato degli Stati Unti d’America John Kerry e del Rappresentante Speciale del Segretario Generale ONU per la Libia Martin Kobler.



mercoledì 27 maggio 2015

La Commissione europea definisce le quote migranti da distribuire. L’ascolteranno?




La Commissione europea torna a riparlare di quote dei migranti da distribuire tra i diversi componenti l’Unione. Vara concretamente, così, il piano secondo cui i diversi paesi che ne fanno parte accetteranno l’ingresso in due anni di 40.000 migranti cui sarà riconosciuto il diritto di asilo, dopo essere stati accolti in Italia e in Grecia.
Queste norme varranno solamente per i migranti in arrivo o già presenti nei due paesi dall’aprile scorso. Si prevede che, grosso modo, saranno dislocati nel resto d’Europa 24 mila migranti giunti in Italia e 16 mila in Grecia.
Queste le proposte da portare ora al voto del Parlamento di Strasburgo. Ma soprattutto da dover far digerire agli stati nazionali. Cosa più facile a dirsi che a farsi. Già tutti si attendono l’innalzamento di barricate invalicabili verso ogni ipotesi di suddivisione nei singoli paesi deciso da Bruxelles.






Le prime a tirarle su sono le capitali come Londra, Dublino e Copenaghen. Ma anche altre non scherzano come quelle di Ungheria, Slovacchia e Polonia, solo per citarne alcune.
L’accoglienza secondo la Comunità sarà assicurata solamente ai migranti in condizione di richiedere asilo politico e non a quelli arrivati per motivi economici o per altre ragioni, cosa che per gli esperti dovrebbe portare all’accoglimento solamente per i migranti provenienti dall’Eritrea e dalla Siria.
Secondo i dati degli organismi internazionali, nel corso dello scorso anno, sono giunti in Europa 220 mila profughi e, quindi, visti i numeri in ballo, già si porranno importanti questioni relative alle selezioni degli aventi diritto e all’organizzazione del rimpatrio degli esclusi. Cose da far tremare i polsi, ma su cui non si sa ancora nel dettaglio niente dei piani predisposti, visto che per ora ci si preoccupa solamente della questione delle impronte digitali da prendere ai migranti.
Su tutto, però, resta la grande incertezza di quanti saranno i paesi disponibili ad aderire al progetto e ad accettare le quote loro spettanti. Molti vorrebbero, infatti, una scelta su base volontaria e solo Germania, Austria e Svezia, sia pure con convinzioni diverse, si dicono pronte a fare la loro parte.
Francia e Spagna, invece, si sono clamorosamente tirate indietro dopo i primi giorni di commozione seguiti alle tragiche vicende vissute sul Mediterraneo che in pochi giorni ha inghiottito più di mille migranti. Stando alle cifre ufficiali che potrebbero rivelarsi veramente prudenziali.
Ai due grandi paesi mediterranei si sono aggiunti subito numerosi altri del centro e del nord Europa che sostengono di non poter accogliere il numero dei migranti loro assegnati perché rischierebbero di veder sollevare contro i governi le loro pubbliche opinioni. Queste si sono, sì, lasciate coinvolgere dalle drammatiche immagini provenienti dal Canale di Sicilia, ma giunti al dunque non intendono proprio ospitare i migranti.
Britannici, irlandesi e danesi già possono chiamarsi fuori, come del resto fanno, per le regole che fissarono a suo tempo l’adesione all’Unione e, così, sarà necessario proprio aspettare le decisioni finali per vedere come andrà a finire questa storia.



lunedì 11 maggio 2015

Il re saudita Salman boicotta il vertice di Obama con i paesi del Golfo




Il re dell’Arabia Saudita e altri tre capi di stato della regione non parteciperanno al vertice tra Stati Uniti e i sei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo, convocato da Barack Obama per il 13 e 14 maggio alla Casa Bianca e a Camp David. L’intenzione dell’amministrazione statunitense è quella di rafforzare i legami con le potenze sunnite della regione nonostante l’avanzamento delle trattative con Teheran sul programma nucleare iraniano. Ma solo gli emiri di Qatar e Kuwait hanno confermato la loro partecipazione al summit.






Fino a venerdì la Casa Bianca aveva assicurato che re Salman sarebbe arrivato negli Stati Uniti per “riprendere le consultazioni su una serie di questioni regionali e bilaterali”, nelle parole del portavoce Eric Schultz. Poi nel fine settimana l’agenzia di stampa filogovernativa saudita Spa ha fatto sapere che il re non sarà presente ai colloqui con Obama e manderà invece il principe ereditario Mohammed bin Nayef oltre al figlio minore, l’attuale ministro della difesa, Mohammed bin Salman, che è anche il regista dell’offensiva militare in corso in Yemen. Pretesto ufficiale della defezione, la coincidenza dei tempi “con l’annunciato cessate il fuoco umanitario in Yemen e l’inaugurazione di un centro per gli aiuti umanitari intitolato al re Salman”.
Anche il re del Bahrein, Hamad bin Isa al Khalifa, sarà sostituto dal principe ereditario, stando a quanto riferito da fonti ufficiali. Saranno assenti per malattia, invece, il sultano dell’Oman, Qaboos Bin Said, che sarà rappresentato dal suo vicepremier, e il presidente degli Emirati arabi uniti, Sheikh Khalifa bin Zayed al-Nahyan, sostituito dal principe ereditario di Abu Dhabi. Al vertice, gli Stati Uniti cercheranno di rassicurare i governi del Golfo, preoccupati per il crescente disimpegno di Washington nella regione e per l’eventualità di un accordo entro giugno tra gli Stati Uniti e l’Iran.



sabato 11 aprile 2015

VIDEO: Usa-Cuba, una riconciliazione attesa da oltre mezzo secolo

Cuba e Stati Uniti, la stretta di mano fra Kerry e Rodriguez







PANAMA
 - Il segretario di Stato Usa Kerry e il suo omologo cubano Bruno Rodriguez hanno tenuto uno storico incontro a Panama alla vigilia del summit delle Americhe. Sull'account Twitter del Dipartimento di Stato americano è stata postata una foto dei due mentre si stringono la mano, nel primo incontro tra i capi delle diplomazie dei due Paesi dal 1958, prima dell'avvento dell'era di Fidel Castro.
«Lavorare insieme, sbarazzarsi delle ideologie, parlare con buon senso e unirsi per avere una visione comune su questo emisfero: con tutto questo saranno creati milioni di posti di lavoro», ha detto Kerry al summit rivolgendosi ai leader di 37 Stati americani riuniti a Panama. Uno dei temi fondamentali da affrontare è la rimozione di Cuba dalla lista degli Stati che sostengono il terrorismo compilata dal dipartimento di Stato americano. Ma al riguardo Washington non si è sbilanciata. PANAMA CITY.  Il segretario di Stato Usa John Kerry e il suo omologo cubano Bruno Rodriguez hanno tenuto uno storico incontro a Panama ieri sera alla vigilia del summit delle Americhe che si tiene oggi e domani. Sull'account Twitter del Dipartimento di Stato americano è stata postata una foto dei due mentre si stringono la mano, nel primo incontro tra i capi delle diplomazie dei due Paesi dal 1958. 

OBAMA PIÙ POPOLARE DEI CASTRO - Nei giorni scorsi, ha fatto scalpore un sondaggio secondo cui il 97% dei cubani ritiene che il processo di normalizzazione dei rapporti tra l'Avana e Washington porterà benefici a Cuba, dove il presidente americano Barack Obama risulta più popolare dei due fratelli Castro. Lo studio è stato condotto sull'isola dalla Bendixen&Amandi International, per conto di Univision e Washington Post, pubblicato alla vigilia del vertice delle Americhe a Panama, dove Obama e Raul Castro avranno un primo faccia a faccia dopo l'annuncio del disgelo, lo scorso dicembre.
80% DEI CUBANI: OPINIONE POSITIVA DI OBAMA - Circa l'80% dei cubani ha dichiarato di avere un'opinione «molto positiva» o«in qualche modo positiva» di Obama, contro il 17% che ha un'opinione negativa, mentre solo il 47% ha detto di avere un'opinione positiva di Raul Castro, contro il 48% che disapprova il suo operato. Lo stesso Fidel Castro gode del sostegno del 44% delle persone interpellate, mentre il 50% lo disapprova.
96% CHIEDE REVOCA DELL'EMBARGO - Secondo il sondaggio, il 96% dei cubani chiede la revoca dell'embargo commerciale Usa, a fronte di un 79% che si dice insoddisfatto del sistema economico cubano. La maggioranza dei cubani, il 53%, si è detta anche insoddisfatta del sistema politico, e il 58% ha un opinione negativa del partito comunista.