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sabato 30 maggio 2015

VIDEO: Ucraina: euronews sulla linea rossa di Shyrokine








Del villaggio di 
Shyrokine, nel sudest dell’Ucraina, non resta che un cumulo di macerie. Euronews si è recata in questa cittadina che rappresenta la linea di fuoco, non lontana dal porto industriale Mariupol, sul mare d’Azov. La zona è contesa dall’esercito ucraino e dai separatisti.
‘‘Siamo a Shyrokine ed è l’alba, siamo sulla linea del fronte, a pochi metri c‘è proprio la linea di contatto tra le forze militari ucraine e quelle della Repubblica popolare di Donetsk, c‘è molto sconcerto in questi giorni perché si parla di un rischio di ritiro da questa zona’‘, dice il nostro corrispondente Sergio Cantone.






Olga fa parte del battaglione Donbass che combatte per Kiev: “L’armamento è in cattive condizioni, se il governo vuole tenersi questa città dovrebbe darci maggiori risorse, prestare maggiore attenzione e investire di più nei difensori di Mariupol che è una città molto strategica e importante, siamo in attesa di un aiuto ma anche di una decisione da parte del governo”.
Il capo del battaglione che si fa chiamare ‘‘Sedoy’‘ non ha alcun dubbio sull’identità dei suoi nemici: “I filo-russi hanno ruotato. I ceceni hanno lasciato Shyrokine ai russi. Qui non ci sono i ribelli della Repubblica di Donetsk. Attraverso le loro conversazioni radio abbiamo appreso da quale regione arrivano i russi”.
Le forze armate ucraine sono state pesantemente provate dal conflitto nell’est del Paese, le armi sono obsolete e le truppe demoralizzate, sullo sfondo di un cessate il fuoco che non è stato mai rispettato.



mercoledì 27 maggio 2015

VIDEO: Saluti dalla Crimea






La propaganda ucraina ha battuto su svariate bugie costruite ad arte per aizzare odio e desiderio di guerra nelle menti dei cittadini ucraini, costretti a dover subire l'insulsa propaganda di TV e giornali controllati dal regime golpista di Kiev. 

Tra queste, la leggenda che in Crimea, terra che i golpisti di Kiev definiscono "occupata" (i crimeani avrebbero occupato loro stessi..), la popolazione sarebbe in preda alla fame, i supermercati sarebbero vuoti e chiunque osi parlare in ucraino (lingua parlata pochissimo anche in quasi tutta l'Ucraina) verrebbe picchiato e dileggiato. 
Il giornalista indipendente ucraino Anatoly Shariy ha pubblicato un video realizzato a Sebastopoli. Buona visione e tanti saluti a Kiev dalla Crimea.

sabato 2 maggio 2015

ESCLUSIVO VIDEO: Salvataggio di un bambino siriano sotto le macerie





Uno dei tanti bombardamenti ad Aleppo in Siria, ma questo salvataggio praticamente sotto i riflettori di una telecamera mi ha stupito particolarmente e ti da una idea dei momenti drammatici che si vivono in quel lasso di tempo per strappare dalla morte una creatura così debole e piccola, la partecipazione ed emozione dei soccorritori e infine il bambino che cerca con tutte le sue tenui forze ad avere la meglio. Ma poi un pensiero ombroso attanaglia la mente, per tutti quelli che sono rimasti sotto e per tutti gli altri che ci rimarranno.



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martedì 17 febbraio 2015

Isis, "45 persone arse vive in Iraq"





I 27 poliziotti iracheni rapiti a Baghdadi sono stati giustiziati; 45 persone sono state arse vive.





Esecuzione di massa in Iraq da parte dell'Isis: 27 poliziotti iracheni rapiti dagli jihadisti a Baghdad sono stati uccisi vicino a una base militare, dove sono presenti oltre 300 istruttori americani, mentre 45 persone, nella stessa città, sarebbero state arse vive
.
Secondo Sabah Karhut, presidente del Consiglio provinciale, i cadaveri degli agenti sono stati gettati nel fiume Eufrate, ma non è chiaro se in realtà ci sia stato un errore nelle comunicazioni. Potrebbe infatti trattarsi di un'unica strage, avvenuta con modalità ancora da chiarire.

Un altro membro del Consiglio provinciale di Al Anbar, Jassem al Halbusy, ha detto che i miliziani dell'Isis hanno posto mine e dispiegato i loro cecchini lungo la strada tra la città e la base al fine di impedire l'afflusso di rinforzi dell'esercito iracheno. Altre fonti riferiscono che gli jihadisti stanno ponendo l'assedio a un compound residenziale poco fuori Baghdadi dove vivono circa 1.200 famiglie, per la maggior parte di soldati, poliziotti e impiegati statali
.

Oggi intanto l'università egiziana di al-Azhar al Cairo, uno dei principali centri d'insegnamento religioso dell'Islam, ha emesso un decreto col quale proibisce ai musulmani di guardare e diffondere il video che mostra la decapitazione dei 21 cristiani copti eseguita in Libia dall'Isis. L'istituzione inoltre esorta i media a non pubblicare i "crimini dei terroristi" per evitare il "sinistro scopo" di condizionare il morale dei musulmani, giustificare la propagazione dell'islamofobia e diffamare l'Islam a livello mondiale.



Come riporta Angelo Del Boca sul Manifesto; il governo italiano irresponsabile. L' intervista e il video:





Parla lo storico del colonialismo sul ruolo dell’Italia nella crisi libica. «L’affermazione del ministro Gentiloni, "Siamo pronti a combattere" e la dimenticanza sulle nostre colpe nel disastro libico, mostrano il vuoto della diplomazia. Va coinvolto subito Romano Prodi»

Abbiamo rivolto alcune domande sull’attuale crisi libica ad Angelo Del Boca, sto­rico del colo­nia­limso ita­liano, della Libia e autore di molti saggi sulla figura di Ghed­dafi (com­presa una impor­tante mono­gra­fia, rie­dita in que­sti giorni in una ver­sione più com­pleta da Laterza).
Come giu­di­chi l’affermazione del mini­stro degli esteri Paolo Gen­ti­loni: «Siamo pronti a com­bat­tere in Libia…», per­ché «è uno Stato fal­lito», sem­bra spie­gare Mat­teo Renzi?
È una dichia­ra­zione irre­spon­sa­bile e impru­dente. Per­ché mette l’accento (salvo mar­gi­nal­mente chia­rire il solito rife­ri­mento all’«egida Onu») pro­prio ad un inter­vento mili­tare dell’Italia che non siamo in grado di fare. Per­ché un conto è atti­vare una guerra aerea come abbiamo fatto nel 2011, un altro com­bat­tere con truppe di terra. È una dichia­ra­zione gra­vis­sima, per­ché siamo spinti den­tro uno sce­na­rio di guerra per il quale siamo ina­datti. Baste­rebbe che i nostri gover­nanti inca­paci stu­dias­sero un po’ la sto­ria, per sco­prire le tante scon­fitte libi­che che abbiamo subito. Altro che inviare 5mila uomini come ha evo­cato la mini­stra della difesa Pinotti. Da inviare con­tro chi? Su quale fronte?
Renzi, che rela­zio­nerà su que­sto gio­vedì in Par­la­mento, sem­bra ora fre­nare e parla di «solu­zione poli­tica». Ma è chiaro che, dopo il sì in patria di Ber­lu­sconi, lavora ad una «coa­li­zione di volen­te­rosi». Ma la situa­zione sem­bra pre­ci­pi­tare: l’Egitto del gene­rale gol­pi­sta Al Sisi, bypas­sando l’Italia, ieri notte ha bom­bar­dato le basi dell’Is a Derna; e ieri mat­tina la Fran­cia ha chie­sto la riu­nione urgente del Con­si­glio di sicu­rezza dell’Onu…
È nello stile di Renzi che vuole gio­care su due tavoli. Il primo è quello da «pro­ta­go­ni­sta», di una mis­sione mili­tare a guida ita­liana. Una cosa mai sen­tita, almeno nel dopo­guerra. L’altro è più pru­dente, viste le dif­fi­coltà reali di una tale enor­mità. Insomma: vabbè, lo fac­ciamo con l’Onu. Che è un atteg­gia­mento più mode­rato e più spen­di­bile. Soprat­tutto di fronte all’atteggiamento del Cairo.
Ieri notte l’aviazione egi­ziana ha bom­bar­dato le posta­zioni dello Stato isla­mico a Derna. Quali rea­zioni pro­voca in Libia l’entrata in campo dell’Egitto con l’offensiva mili­tare del generale-presidente Al Sisi? E qual è la situa­zione poli­tica interna al fronte libico, diviso e frammentato?
L’iniziativa mili­tare egi­ziana è rile­vante, anche se va ricor­dato che è ini­ziata da tempo, infatti aveva già bom­bar­dato nei giorni scorsi Ben­gasi. Di fatto il nuovo regime del Cairo appog­gia il governo libico in esi­lio di Tobruk che fa rife­ri­mento al gene­rale Kha­lifa Haf­tar e al suo eser­cito. Haf­tar com­batte già a Ben­gasi con­tro i jiha­di­sti e sta ria­bi­li­tando espo­nenti del regime di Ghed­dafi. E Al Sisi deve dare una prova di forza per­ché se non difende quel con­fine e il Sinai, per lui è finita. Il fatto è che den­tro la Libia a comin­ciare da Tri­poli, di alleati di Al Sisi non se ne vedono, Tri­poli è persa. Anche per­ché il governo legit­timo libico, eletto da ele­zioni suf­fra­gate dagli osser­va­tori inter­na­zio­nali, è nelle mani della coa­li­zione Al Fajr (Alba), for­ma­zione che va dai Fra­telli musul­mani alla mili­zia Scudo di Misu­rata. Come si ricor­derà nel 2013 il gene­rale Al Sisi ha depo­sto il pre­si­dente Morsi, mas­sa­crato e messo fuori legge i Fra­telli musul­mani. E ora le mili­zie del Calif­fato pun­tano alla con­qui­sta di Misu­rata, gover­nata appunto dalle stesse forze di Tripoli.
Non ti sem­bra che, anche sta­volta, venga taciuto l’interesse ita­liano, ormai deci­sivo, riguardo alle nostre fonti di approv­vi­gio­na­mento energetico?
Que­sto aspetto invece è fon­da­men­tale. Ma Renzi lo tace, anche per­ché la situa­zione dell’Eni in que­sto momento è pastic­ciata e inge­sti­bile. Dopo gli scan­dali legati all’Algeria e soprat­tutto per la crisi in Ucraina che, alla fine, ha sostan­zial­mente pena­liz­zato l’Unione euro­pea e in par­ti­co­lare l’Italia, visto il disa­stro della can­cel­la­zione del South Stream, il fon­da­men­tale mega-progetto di gasdotto euro­peo. Secondo me in que­sta fase — e non solo per l’insicurezza deri­vata dalla guerra per bande ma anche per il mer­cato stor­nato verso altri lidi -, l’Eni non è in grado di estrarre nem­meno un litro di petro­lio dai gia­ci­menti libici.




Come mai tanta arro­ganza e mio­pia del governo ita­liano in que­sta fase della crisi mon­diale?

È per­ché, in modo scel­le­rato, manca una poli­tica estera, una vera diplo­ma­zia ita­liana. Renzi dice che la Libia è uno «Stato fal­lito». E chi l’ha fatto fal­lire se non la guerra del 2011 voluta a tutti i costi dalla Fran­cia di Sar­kozy? Dimen­ti­cano che con quella guerra fug­gi­rono milioni di lavo­ra­tori migranti e di libici, dei quali ora un milione è in Egitto e 600mila in Tuni­sia. Voglio ricor­dare che quando gli aerei della Nato bom­bar­da­vano la Libia nel marzo del 2011, io ammo­nivo «la Libia diven­terà una nuova Soma­lia». È quello che è acca­duto. Ora va coin­volto, in una fun­zione di media­zione inter­na­zio­nale l’alta per­so­na­lità di Romano Prodi, già inviato spe­ciale nel Sahel dell’Onu, che ha espresso più volte la sua con­tra­rietà alla solu­zione mili­tare, e che è visto come inter­lo­cu­tore anche dalle attuali auto­rità di Tri­poli. Subito, prima che sia troppo tardi.






mercoledì 11 febbraio 2015

Video: A Minsk la nuova Yalta: il giorno più lungo del conflitto ucraino





Minsk, 
si decide un pezzo dell’ordine mondiale, in un vertice che a meno di sorprese dell’ultimo minuto  vedrà impegnati i presidenti russo Vladimir Putin, quello ucraino Petro Poroshenko, la cancelliera tedesca Angela Merkel, la grande protagonista di questo tentativo in extremis, e il presidente francese Francois Hollande.
Un giorno che la storia ha voluto capricciosamente collocare a 70 anni esatti dalla fine della Conferenza di Yalta: correva l’11 febbraio 1945. Per la cronaca, Yalta si trova in Crimea, la regione appartenuta all’Ucraina dal 17 giugno 1957, quando il presidente sovieticoKruscev la donò alla repubblica sorella, al marzo 2014 quando un contestato referendum popolare ne decise a stragrande maggioranza l’annessione alla Russia, poi ratificata il 20 marzo dello stesso anno. Le ricorrenze, insomma, si sprecano.



Per tornare all’attualità, dopo l’incontro del 6 febbraio a Mosca tra i leader tedesco e francese e il presidente russo, la conferenza sulla sicurezza di Monaco e l’ultimoincontro a Washington sempre della Merkel con il presidente americano Barack Obama, tenuto appena due giorni fa, il colpo di scena delle ultime ore precedenti lo storico vertice nella capitale bielorussa è venuto proprio da Obama, che ieri ha preso l’iniziativa – non è chiaro se e quanto concordata con i negoziatori europei – di chiamare direttamente Putin. Per quanto è dato sapere, nella telefonata i due presidenti hanno discusso delle violenze e della presunta presenza e delle azioni delle forze russe nelle regioni orientali ucraine, che secondo gli Usa sarebbero all’origine della crisi iniziata ormai quasi un anno fa.

Il presidente Obama ha ribadito il sostegno degli Usa all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina. Obama, riferisce la Casa Bianca, ha anche espresso la sua preoccupazione per l’escalation della violenza nell’Ucraina orientale e, soprattutto, per il sostegno che le truppe russe stanno ancora dando ai separatisti.
In precedenza Obama aveva invece chiamato il presidente ucraino, Petro Poroshenko. Obama ha anche esortato Putin a cogliere l’occasione dei colloqui di oggi a Minsk con il suo omologo ucraino, Hollande e Merkel, avvertendolo esplicitamente che se la Russia continuerà con le sue azioni aggressive in Ucraina, “incluso l’invio di truppe, di armi e il finanziamento a sostegno dei separatisti, i costi per la Russia saliranno ancora“.
Apparentemente, un tono tutt’altro che conciliante, ma non è chiaro se si tratti di una mera apparenza volta a mascherare il sorpasso diplomatico da parte dell’Europa, oppure del genuino tentativo di portare lo zar Vladimir su posizioni più concilianti e accettabili dal suo omologo ucraino, quel Poroshenko che si trova nella poco invidiabile posizione di dover rispondere da un lato all’alleato e sostenitore d’oltre oceano, dall’altro a una crescente opposizione radicale interna che vede nel primo ministro Yatseniuk e nel segretario del Consiglio di Sicurezza e Difesa nazionale Turchinov i maggiori candidati alla defenestrazione di Poroshenko nel caso di eccessive concessioni alla Russia e ai separatisti del Donbass. O infine, se la speranza segreta del presidente Usa sia quella di assistere al fallimento dei negoziati.
Mentre il gruppo di contatto formato dai rappresentanti del governo ucraino, dei separatisti filo-russi, della Russia stessa, dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e dell’Unione europea hanno lavorato febbrilmente in queste ore per definire la piattaforma dell’eventuale accordo, il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier si mostrava molto cauto: “Vi sono ancora molte questioni aperte da risolvere prima dell’inizio del vertice“, ha spiegato il capo della diplomazia tedesca.
Il presidente francese ha annunciato che andrà a Minsk con una forte volontà di trovare un accordo mentre Berlino ha lanciato un appello alle due parti, chiedendo di prepararsi a scendere a compromessi. I colloqui si concentreranno sulla delimitazione della zona cuscinetto demilitarizzata tra le forze di Kiev e quelle separatiste e l’avvio di contatti diretti tra il governo ucraino e le autorità delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. Fonti diplomatiche europee riferiscono che la Russia vuole che sia l’Osce, che ha già 400 osservatori nel paese, a sovrintendere alla creazione della zona demilitarizzata.
Si prevede battaglia sui confini sui quali “congelare” la situazione: sul campo, dai primi accordi Minsk del 19 settembre scorso a oggi, le forze separatiste hanno conquistato almeno un altro migliaio di km quadri, come evidente nei quadri a fianco. Chi abbasserà lo sguardo per primo?
Dal summit, comunque, la comunità internazionale si aspetta una nuova tregua, che gli sherpasembrano aver concordato. Altrimenti potrebbero aprirsi scenari tutt’altro che tranquillizzanti: nuove sanzioni a Mosca e fornitura di armi difensive da parte degli Usa a Kiev. Una ipotesi, quest’ultima che non è tramontata, nonostante il “no” dell’Ue, dopo l’incontro di lunedì tra Obama e Merkel. Anzi, anche la Gran Bretagna ha fatto sapere di essere contraria, ma di riservarsi il diritto di rivedere la sua decisione. Barack Obama attende l’esito del negoziato per decidere se inviare “armi letali“.
Nuove sanzioni e l’invio di armi “destabilizzeranno ulteriormente la situazione“, ha fatto sapere il Cremlino, mentre per il segretario del Consiglio di sicurezza russo, Nikolai Patrushev, l’inizio della fornitura di armi sarà un’ulteriore conferma che Washington è direttamente coinvolta nel conflitto in Ucraina.



L’Europa vuole, comunque, mostrarsi ottimista: “Mi auguro che la Russia sia consapevole del fatto che questi negoziati debbano portare a risultati concreti: il risultato dipende dalla Russia“, ha sottolineato il ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, in vista del vertice di Minsk di domani per tentare una soluzione della crisi Ucraina. “Le soluzioni possibili sono tante – ha aggiunto – come il modello italiano del Sudtirolo perché nell’Europa di oggi è necessario avere degli stati sovrani con, nei loro confini, regioni con lingue e culture differenti”.
Il vertice di oggi fra i leader di Francia, Germania, Russia e Ucraina, “è un’opportunità, non una certezza, che non può essere perduta“, ha ribadito il capo della diplomazia europea – capo presunto, dato il ruolo quanto meno evanescente tenuto in questa delicatissima vicenda in cui, detto con franchezza e gergo calcistico, non ha toccato palla – Federica Mogherini, facendo il punto della situazione in Ucraina al parlamento europeo in sessione plenaria a Strasburgo. “È la sola strada per cominciare a trovare una via di uscita alla crisi, che sta peggiorando in modo pericoloso. In gioco – ha detto –c’è la stabilità del continente“. Da segnalare anche l’inattesa e dura posizione presa dall’ex primo ministro Mario Monti il quale ha dichiarato di credere che “gli Stati Uniti non sempre comprendono che l’Europa ha i propri problemi, e che [l’Europa] non può essere vista soltanto come uno strumento degli interessi globali degli Stati Uniti“. Una presa di distanza che, espressa da questo personaggio, come minimo invita alla riflessione.  
Infine, per il presidente ucraino il summit “è una delle ultima opportunità di dichiarare il cessate il fuoco incondizionato e di (ottenere) il ritiro dell’artiglieria pesante” dalle regioni orientali e separatiste.
Artiglieria che, però, nelle ultime ore non ha smesso di sparare. Oltre ai soliti bombardamenti su Donetsk, attribuiti alle forze regolari, ieri si è registrata unainedita offensiva dei ribelli filo-russi contro Kramatorsk, città saldamente nelle mani dell’esercito ucraino e distante circa 70 km dai confini della regione controllata dai separatisti. Nell’attacco, condotto con il lancio di una trentina di razzi Tornado,  di fabbricazione russa, sono rimasti uccise almeno 15 persone e 63 sono rimaste ferite, tra cui 5 bambiniPoroshenkoin persona ha denunciato l’attacco dei separatisti al quartier generale dell’esercito e una vicina area residenziale, mentre i ribelli hanno negato di aver sferrato un attacco su Kramatorsk.
Che in ogni caso gli armamenti in dotazione alle milizie filo-russe siano in rapida crescita quantitativa e qualitativa lo dimostra, oltre a questo ultimo attacco a lunga distanza, la disponibilità di una sia pur minima forza aerea e di sistemi di contraerea che di fatto da alcuni mesi impediscono il sorvolo del Donbass da parte dell’aviazione militare ucraina.



lunedì 19 gennaio 2015

La battaglia all’aeroporto di Donetsk







L'esercito ucraino ha riconquistato parte dell'aeroporto cittadino, prima controllato dai ribelli filo-russi: sono gli scontri più violenti da quando è stata firmata la tregua
A Donetsk, città dell’Ucraina orientale controllata dai separatisti filo-russi, è in corso lo scontro più violento da quando lo scorso settembre i ribelli hanno firmato una tregua con il governo ucraino. L’esercito ucraino ha lanciato nella notte un attacco con cui sostiene di aver riconquistato quasi del tutto l’aeroporto della città, l’area al centro degli scontri nelle ultime settimane. In questi mesi gli scontri non si sono mai fermati del tutto, anche se l’intensità della battaglia a Donetsk era diminuita parecchio. Dall’inizio di gennaio i ribelli filo-russi hanno ricominciato a compiere attacchi sempre più frequenti. Soltanto nella giornata di sabato 17 gennaio tre militari ucraini sono stati uccisi e altri 18 sono rimasti feriti. Nuovi colloqui di pace tra il governo e i ribelli erano previsti per il 16 gennaio a Minsk, in Bielorussia, ma a causa degli scontri sono stati sospesi.
La battaglia per l’aeroporto La battaglia di Donetsk si combatte soprattutto intorno all’aeroporto “Sergei Prokofiev” di Donetsk. L’aeroporto è chiuso dallo scorso maggio, quando sono cominciati gli scontri tra ribelli ed esercito ucraino: fino a quel momento aveva un traffico di circa un milione di passeggeri l’anno. Oggi è completamente in rovina: alcune riprese dall’alto mostrano gli enormi danni che ha subito negli ultimi mesi, tra cui anche alcuni segni di crateri di bombe. L’aeroporto si trova in un punto strategico, a poca distanza dal centro di Donetsk, città che i ribelli considerano la loro capitale. Quello che resta dell’aeroporto ha assunto anche un valore simbolico per entrambi gli schieramenti.
Nelle ultime settimane gli scontri si sono intensificati in tutta l’area intorno alla città di Donetsk. I ribelli hanno compiuto una grande manovra “a tenaglia” per circondare l’aeroporto impiegando moltissima artiglieria. Il 13 gennaio un razzo sparato dall’area controllata dai ribelli ha colpito un autobus uccidendo 12 civili e ferendone altri 17. Due giorni dopo, il 15 gennaio, i ribelli hanno annunciato di aver conquistato l’aeroporto, ma il governo ucraino ha smentito la notizia. A quanto pare i ribelli sono riusciti a prendere il controllo del terminal principale, ma alcune unità dell’esercito ucraino sono riuscite a resistere attorno alla torre meteorologica dell’aeroporto.